L’organizzazione territoriale
della centuriazione romana, che ‘pure si rivelò perfettamente razionale
e funzionale, tanto da sopravvivere in buona parte fino ai giorni nostri
nell’orientamento dei campi, delle rogge e delle strade, subì tuttavia
un assai grave sconvolgimento dopo la caduta dell’Impero d’Occidente (476).
Con il venir meno di ogni autorità statale centrale ed il grave
peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, i numerosi corsi
d’acqua a sud delle risorgive, nuovamente abbandonati a se stessi, provocarono
gravi inondazioni. A tali danni si aggiunsero quelli dovuti all’esasperato
fiscalismo bizantino (i coloni superstiti arrivarono a distruggere i propri
vigneti per sottrarsi all’obbligo di versare tributi assurdi), alle continue
guerre ed ai saccheggi cui si trovarono soggetti soprattutto quei territori
che erano attraversati da importanti vie di comunicazione, come a-punto
la Via Romana, lungo la quale scorrazzarono ondate successive di barbari
invasori. Così anche le campagne della Bassa, già spopolate
dalle carestie, dalle epidemie e dalla grave crisi economica che portò
al crollo del sistema schiavistico romano, diventarono in gran parte abbandonate
e deserte e l’ambiente naturale delle paludi e delle foreste riprese il
sopravvento sulle opere degli uomini.
Di questo oscuro periodo, anche
per la assoluta mancanza di documentazione scritta, non conosciamo praticamente
nulla di certo sul nostro territorio. In particolare, come ormai riconoscono
anche gli storici locali, non appare più sufficientemente fondata
l’opinione dello storico Muratori, il quale nel 1700, indicava proprio
nel nostro Calvenzano il luogo della prigionia e dell’uccisione del nobile
romano ANICIO MANLIO SEVERINO BOEZIO, autore dell’opera filosofica «DE
CONSOLATIONE PHILOSOPHIAE», condannato a morte per alto tradimento
dal re degli Ostrogoti, Teodorico, nel 524. L’espressione «IN
AGRO CALVENTIANO», usata dai cronisti di quei tempi per indicare
tale luogo, non consente infatti di trarre conclusioni certe giacché,
come si è visto, fin dall’epoca romana esistevano parecchie località
così denominate, basti pensare che, pur restando all’interno dell’area
tra Milano e Lodi, esiste tutt’ora anche una seconda località detta
Calvenzano nel comune di Caselle Lurani, a pochi chilometri da Vizzolo.
La questione comunque ha dato vita ad una lunga e curiosa controversia
con il ricorso a motivazioni spesso estranee alla ricerca storica. Molto
poco attendibile, in particolare, è ormai giudicata l’opera che
un certo monsignor Luigi Biraghi, dedicandola alla nobildonna Sofia Predabissi,
allora proprietaria di Calvenzano, pubblicò nel 1865 con l’intento
dichiarato di dare lustro a quella famiglia locale. In seguito, in anni
più recenti, fu il cardinale I.S. Schuster a riprendere l’opinione
del Muratori su basi certo più storiografiche, con una serie di
scritti e con la lapide, tutt’ora visibile, fatta murare sul fianco della
Basilica di S. Maria il 23 ottobre 1947. Ma in realtà l’attuale
basilica risale solo ai secoli X-XI e la fondazione del monastero di Calvenzano,
che il Biraghi colloca addirittura nel VI secolo, come vedremo, data all’incirca
all’anno 1090, vale a dire più di cinquecento anni più tardi
rispetto alla morte di Boezio, avvenuta nel 524. Se pure il nostro Calvenzano
poteva già esistere a quei tempi, ma come semplice fondo agricolo,
non si riesce a capire per quali motivi Teodorico avrebbe deciso
di segregarvi un prigioniero tanto importante che poteva invece tenere
al sicuro vicino a sé, a Pavia, nel quartiere tutt’ora chiamata
Borgo Calvenzano, dove appunto egli risiedeva e dove la tradizione della
morte e della sepoltura di Severino Boezio appare più antica e documentata.
Anche per la successiva epoca Longobarda (568-577), non disponiamo di alcun
documento scritto relativo al territorio di Vizzolo. Il termine di Longobardi,
che si riferisce appunto solo all’elemento etnico prevalente, non deve
far pensare all’invasione di un’unica gente. Si trattava in realtà
di un mosaico di diverse popolazioni barbariche, dato che, come spiega
lo stesso storico longobardo, Paolo Diacono, il re Alboino «portò
con sé in Italia popoli che egli o i suoi predecessori avevano sottomesso
tanto che ancora oggi noi chiamiamo i paesi in cui si stanziarono con i
nomi dei Gepidi, Bulgari, Sarmati». La moderna scienza toponomastica
conferma pienamente questa affermazione di Paolo Diacono: come Zivido (attuale
frazione di S. Giuliano) ricorda ad esempio uno stanziamento di Gepidi
o Gebedi, la cascina Sarmazzano, in territorio di Vizzolo, attesta evidentemente
un insediamento di Sarmati, genti barbare iraniche, originarie della Russia
meridionale, giunte appunto in Italia quali alleate dei Longobardi nel
568 e forse anche prima. Questa antica presenza di Sarmati sulle rive dell’Addetta,
a poca distanza dalla Via Romana, si inserisce del resto in una fitta fascia
di stanziamenti longobardi detti «arimannie» già ampiamente
rilevata dagli storici lungo la valle del Lambro, forse con una funzione
di controllo strategico delle comunicazioni, terrestri e fluviali. Fieri
delle loro diversità di lingua, cultura e religione, i nuovi dominatori
non si mischiarono alla popolazione locale sopravvissuta, bensì
preferirono stabilirsi in luoghi separati ove tutti i vicini, membri delle
comunità rurali, dovevano recarsi per consegnare, quale tributo,
la terza parte dei loro raccolti e dei prodotti silvo-pastorali. Accanto
ai pochi campi ancora rimasti, infatti, occupavano allora un posto assai
importante i grandi boschi di querce dove si allevavano allo stato brado,
mandrie di porci che assomigliavano, nell’aspetto e nell’indole, più
ai cinghiali che ai nostri attuali maiali domestici. Intorno alle abitazioni
dei nuovi signori, poi, vasti spazi incolti erano riservati al pascolo
dei cavalli, il bestiame preferito da quelle genti di abili cavalieri. |