Gennaio:
gennarju – ennarzu, is tres gurreis.
Dal latino Ianuarius,
mese di Giano, il dio delle porte e delle città italiche. Secondo
la leggenda romana fu costruttore della Rocca del Gianicolo. Il tempio
di Giano aveva due porte, una di fronte all’altra. Queste rimanevano chiuse
in tempo di pace, ed invece aperte in tempo di guerra.
Il nome del mese è legato quindi al
dio Giano, che deriva da ianua = porta. Anche in sardo abbiamo
iànna, ènna, gènna. Gennaio è dunque la porta
dell’anno.
Parafrasando Leopardi
Unu piccioccu ki bendit tzaravàllius,
a u’ sennori ki passat bia, bia:
“Tzaravàllius, tzaravàllius po
su 2009;
fusteti dhu bollit, su sennòri”?
“Naramìdha, piccioccu,
e cumenti hat a essi s’annu nou?
Hat a essi bellu, hat a essi malu”?
“Su sennòri, hat a essi bellu, bellu”!
“Naramìdha piccioccu,
hat a essi prus bellu de s’annu ki est passau”?
« Sissi su sennòri, prus bellu,
prus bellu » !
« Naramìdha piccioccu,
hat a essi prus bellu
de is annus ki eus connòtu » ?
« Prus bellu, prus bellu, su sennòri”!
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Traduzione (letterale)in italiano
Un giovane venditore di Almanacchi
Ad un signore che incontra in strada.
“Almanacchi, almanacchi per il 2009!
Voi, lo acquistate signor mio”?
“Dimmi, giovanotto
e come sarà l’anno nuovo?
Sarà bello o sarà brutto”?
“Sarà bello, bello, signor mio”!
“Dimmi giovanotto,
sarà più bello dell’anno che è
passato”?
“Più bello, più bello, signor mio”!
“Dimmi, giovanotto,
sarà più bello
degli anni conosciuti”?
“Più bello, più bello, signor mio”!
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Il nuovo anno è sempre salutato con simpatia
e con la speranza a migliorare. È pura utopia, perché la
storia insegna che c’è un legame stretto ed inscindibile tra passato,
presente e futuro. Anche quando l’anno nuovo è d’ingresso ad un
nuovo millennio, come lo fu l’anno duemila: accolto con grande gioia da
papa Giovanni Paolo II, che lo proclamò anno di Giubileo, cioè
anno di “gioia” per tutti i cristiani del mondo. Mentre “altri”avevano
preannunciato la fine del mondo, invitando tutti a prepararsi al trapasso
universale. Per i quali era arrivato dunque il Giorno del Giudizio: dies
illa.
Fatti e previsione, suggerirono in me
questa canzone:
Dies illa, dies illa.
Si sciait su mundu,
propiu in su duamila!
“Hat a essi prus bellu,
ha a essi prus mau,
su tertzu millenniu
de su ki nc’est passau?
“Prus bellu, prus bellu”!
Narat su bendidori
De tzaravallius.
Dei aici hanti nau
Cogas e magus,
ma serbit fetti
a fai su burdellu!
Dies illa, dies illa
Su mundu si sciait
In su duamila.
De Nostradamus
Scieus sa cristioni,
Ca in su duamila
Si sciait su mundu,
Maria e Gesùsu
Tzerriaus in cantzoni
Po no si sarvai
De su sperefundu.
Dies illa dies illa.
Pinnicausì in tundu,
ca in su duamila
si sciait su mundu!
De pampa manna
S’hat abbruxài
Tottu su mundu
Cun s’humanidadi
A lambrigas longas
Nos eus a itzerriài
Gesùsu e Maria:
pedronu y amistadi.
Dies illa, dies illa,
propiu in su duamila
su mundu s’hat a sciai
e nudda podeus fai.
Unu alluvioni
De fogu hat a essi
A preni fruminis
Arrius e baulodrus,
mannus, pittius,
arriccus e poburus
nci hat a tirai,
de pressi, de pressi!
Dies illa, dies illa;
In pampa manna
In su duamila
Tottu su mundu
si nd’hat andai,
hominis e bestias
nci hat a tirai!
Nostropeppus!!!
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Traduzione (letterale)in italiano
Dies illa, dies illa,
si sfascerà il mondo
proprio nel duemila.
Sarà più bello,
sarà più brutto,
il terzo millennio
di quello passato?
“Più bello, più bello”!
Dice il venditore
Di almanacchi.
Così hanno detto
Streghe e indovini.
Ma serve soltanto
A far confusione.
Dies illa, dies illa,
si sfascerà il mondo
proprio nel duemila.
Di Nostradamus
Sappiamo la previsione:
che nel duemila
si sfascerà il mondo;
Maria e Gesù
Chiamiamo in coro
Per salvarci tutti
Dal profondo inferno.
Dies illa, dies illa,
raggruppiamoci in tondo
che nel duemila
si sfascerà il mondo!
Per un gran fuoco
Brucerà
il mondo,
con l’umanità.
In forte pianto
Tutti chiederemo
A Gesù e Maria
Perdono e pietà!
Dies illa , dies illa,
si sfascerà il mondo
proprio nel duemila
e nulla possiamo fare!
Una grande tempesta
di fuoco ci inonderà
e riempirà ruscelli,
fiumi e mari.
Grandi e piccoli,
ricchi e poveri,
trascinerà via!
In fretta, in fretta!
Dies illa, dies illa,
in un gran fuoco
proprio nel duemila
tutto il mondo
se ne andrà
uomini e bestie
con se trascinerà!
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6 Gennaio: Epifania:
Sa Befana; sa dì de is tres Gurreis: il giorno dei re magi. Epifania
deriva dal greco (Epifanèia) ?????????, che significa miracolo,
manifestazione: una delle più importanti per i cattolici;
cade il 6 gennaio e corrisponde alla visita e adorazione del Bambino
Gesù da parte dei Re Magi. Nella liturgia bizantina la manifestazione
più importante era ed è il battesimo di Gesù nel Giordano:
San Giovanni Battista, 24 giugno. Per i bambini la Befana è quella
“adorabile strega”, che porta tanti doni. Quand’ero bambino scrivevo alla
Befana: “Cara Befana, per tutto l’anno ho fatto da bravo, a casa e a scuola,
portami la bicicletta”! Risposta della Befana: “Caro Pinuccio – mi chiamava
così – hai fatto da monello etc. etc. e la Befana ti ha portato
“carbone morto””! Mi dovevo accontentare, mio malgrado, della vecchia e
sgangherata bicicletta di mio padre, col quale, per averla, anche per poco
tempo, dovevo immancabilmente litigare!
17 gennaio: Sant’Antonio abate.
Qui da noi è comunemente chiamato Sant’Antoni
de su fogu (del fuoco) o Sant’Antoni de is procaxus (degli allevatori di
maiali e degli allevatori in genere). Sulla vita del Santo, molta parte
è leggenda. Nato ad Eracleopoli, nel Medio Egitto intorno al 250
d. C., nel 270 scelse la vita di eremita e per 15 anni visse nel deserto,
nel più completo isolamento ed in preghiera, durante i quali anni,
si dice, fosse stato tentato e tormentato in continuazione dal demonio.
In seguito si trasfer’ in un castello, lungo la riva sinistra del Nilo,
seguito da una moltitudine di discepoli. Poi tornò alla vita di
eremita nelle rive del Mar Rosso. Morì nel 356, all’età di
106 anni. Le sue reliquie furono portate ad Alessandria d’Egitto nel 561
e successivamente a Costantinopoli. Nell’XI° secolo (1070), i suoi
resti furono trasferiti nel Delfinato in Francia, in una chiesa a lui dedicata,
nel villaggio di La Motte nei pressi di Vienne (vedi nel Web –Antono Abate-).
Sembra che il territorio fosse stato colpito da una epidemia di Erpes Zoster
(da noi comunemente chiamato su fogu de Sant’Antoni, che altro non è
che una eruzione cutanea o esantematica, che colpisce le zone intercostali,
o facciali o anche altre parti del corpo. È provocato dallo stesso
virus della varicella. Per molti esperti si tratta appunto della varicella
contratta da adulti. Nella parte colpita si formano grosse vescicole, generalmente
accompagnate da forti bruciori e dolori, che possono persistere a lungo,
anche dopo la guarigione delle lesioni cutanee. È usanza, da noi,
ma non solo, quando uno è colpito dal “fuoco” di S. Antonio, chiedere,
per la sua guarigione, di casa in casa una moneta, la più piccola,
altrimenti chiamata, l’obolo di S. Antonio. Il ricavato della questua si
da al parroco per la celebrazione di una messa in onore del Santo, in modo
che favorisca la pronta guarigione. A parte l’utilità o meno del
rito e della questua e gli esiti più o meno positivi di tutta la
manifestazione, la maggior parte della nostra gente, crede veramente che
il Santo possa operare il miracolo. Quindi che la scienza medica confermi
o meno l’usanza, per chi crede ha ben poca importanza! In molti paesi della
Sardegna e non solo, il giorno di S. Antonio si accendono i fuochi nelle
piazze, in onore del Santo( Su Fogaroni de Santu Antoni), che viene raffigurato
generalmente nelle immagini, con un maialino, perciò detto Sant’
Antoni de is procaxus = S. Antonio dei porcari. Per confermare la credenza
ed ancor più per chiamare a raccolta tanta gente, per la festa,
quando cessano le fiamme lasciando il posto alle braci ardenti, numerosi
spiedi con infilzati altrettanti maialetti, anticipano quella che sarà
la grande abbuffata, accompagnata da “decalitri” di vino novello; allora
la festa per tutti i presenti diventa molto più coinvolgente: chi
è scemo resti a casa!
La tradizione: il pane fatto in casa in Campidano(
su pani fattu in domu).
Per la massaia sarda, fare il pane in casa
era l’impegno più grande. Primo compito era quello di mettere in
un catino - “sa sciveddèdda”- di ceramica, il lievito di frumento
– su fromentu – (che non deriva dal latino frumentum = grano, bensì
da fermentum = lievito); questo poi si versava in un grosso catino, sempre
di ceramica – sa scivèdda de cummossai – il truogolo per impastare.
Si versava quindi la farina – sa fàrra -, che veniva impastata insieme
al lievito, a mano, con l’aggiunta di acqua tiepida e della giusta quantità
di sale. Il tutto avveniva sopra un tavolo detto appunto sa mesa de cummossai
e de fai su pani (il tavolo per impastare e per fare il pane). Prima di
impastare la buona massaia consacrava il suo impasto col segno della croce,
per ricordare che era dono di Dio. Finito l’impasto – cummossàda
o ciuètta (dal latino subigere)beni, beni sa farra, preparava le
forme con le cestelle (is covinus): i pani grandi = is moddixinas; le focacce
= is ladas; il pane duro = su coccòi (di semola – simbula); su civraxu
= il pane nero, di cruschello. Il resto toccava al forno a legna, (preparato
a puntino e non era cosa facile portarlo alla giusta temperatura) e alla
vigilanza continua della brava massaia: ogni sfornata doveva essere un
capolavoro. Il pane, solitamente veniva preparato una sola volta per tutta
la settimana e certo, appena sfornato aveva una fragranza indescrivibile,
ed anche dopo diversi giorni si manteneva buono. Nonna Fosci mi ricordava
sempre con quanta ansia i minatori di Ingurtosu e Naracauli, attendevano
le loro donne, che portavano in miniera, insieme alle provviste della settimana,
anche il pane fresco: le donne di Gonnosfanadiga raggiungevano i loro uomini
in miniera, a piedi, per i sentieri di montagna (is mòris) di Sìbiri,
sa Pèdra Marcàda, Ingurtosu, Naracauli (circa 25 km.), con
le ceste (is crobis) ben ricolme, in testa (a cùccuru).
Racconto del mese:
Storia di un piccolo pettirosso.
“Quando le giornate erano chiare, pur col
freddo intenso di gennaio (1°), gli operai della miniera consumavano
il frugale pasto all’aperto; disposti in cerchio, su dei sassi, con al
centro un bel fuoco di frasche secche. L’aria gelida, ma pulita, rinfrancava
i polmoni intasati di polvere: le mani callose, i volti anneriti, rugosi,
segnati da fatica e sofferenza; la mente lontana a cercare visi noti di
compagni rimasti in guerra (2°), in Spagna, in Grecia e i più
sfortunati, fra i ghiacci della steppa…essi invece, a sudar nelle viscere
della terra, erano i più fortunati! In una di quelle splendide,
fredde giornate, durante il pasto, la comitiva, ebbe una strana visita:
un piccolo pettirosso(3°), intirizzito ed affamato beccava timidamente
le briciole cadute dalla pagnotta di un minatore. Gli sguardi veloci si
posarono sulla bestiola infreddolita. Per tutti fu una cosa meravigliosa:
cinque o sei beccate e via sul ramo vicino; di nuovo a terra e poi sul
ramo. La sirena richiamò i minatori al lavoro, interrompendo l’incantesimo.
Il giorno dopo, all’ora del pasto, più atteso del solito, i minatori
si disposero, attentamente, come il giorno precedente, quasi per un rito
dovuto e quanto speravano, avvenne: l’uccellino, saltellava felice in mezzo
al gruppo e con le sue veloci beccate alleviava un po’ la tristezza
di quei visi scuri! Al terzo giorno, pioggia e grandine impedirono il pasto
all’aperto. Al ritorno in paese non ci furono parole di commento, ma solo
il suono stridulo dei freni delle biciclette, nella discesa! E fu così
per diversi giorni. Ma tornarono le belle giornate, il pasto all’aperto,
le visite del piccolo pettirosso ed il sorriso su quei volti turbati. E
fu così per giorni e settimane. A primavera arrivarono due giovani
reclute, che si unirono, sin dal primo giorno, alla comitiva per il pasto
all’aperto: essi non furono avvertiti della strana visita. Erano tutti
in cerchio, a sbocconcellare la pagnotta, quando apparve l’uccellino: “Ma
quale spettacolo, indesiderato, si presentò ai loro occhi? Increduli,
meravigliati videro la bestiola stramazzare, colpita da un malaugurato
sasso, scagliato, con estrema precisione dall’impietosa mano di uno dei
nuovi arrivati: l’incantesimo finì tosto! Agli inutili soccorsi,
seguì dolore e rabbia. Il giovane minatore si rese conto subito
della gravità del suo gesto, ed evidenziando il suo pentimento,
chiese ripetutamente scusa, con le lacrime agli occhi. I minatori capirono
e perdonarono! Di pomeriggio, nella discesa al paese, poco dopo il ponte
di Piras, i minatori tutti, fermarono le biciclette, scelsero il luogo
adatto, sul ciglio della strada, e vi deposero, con affettuosa tenerezza,
la piccola salma, ricoprendola con un mucchio di sassi ed una crocina di
legno al centro.
A distanza di oltre mezzo secolo, qui nel
borgo di Gonnosfanadiga, molti ricordano ancora la “storia” del piccolo
pettirosso della Miniera di Perd’’e libera”!
1°) a metà gennaio del 1943.
2°) Stalingrado: ( 2^ guerra mondiale)2^
- 3^ settimana di gennaio 1943.
3°) il pettirosso qui da noi è
chiamato su printzi; in altre parti della Sardegna si chiama: traddèra,
brabarrùbia, zikì, ghisu, ghisèttu, tziddì,
etc.
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