1.
Redditus imperiis Auster, subiectaque rursum
2. Alterius convexa
poli: rectore sub uno
3. Conspirat
geminus frenis communibus orbis.
4. Iunximus Europen
Libyae: concordia fratrum
5. Plena redit:
patriis quod solum defuit armis,
6. Tertius occubuit
nati virtute tyrannus.
7. Horret adhuc
animus, manifestaque gaudia differt,
8. Dum stupet,
et tanto cunctatur credere voto.
9. Necdum Cinyphias
exercitus attigit oras;
10. Iam domitus
Gildon. Nullis victoria nodis
11. Haesit, non
terrae spatio, non obiice ponti.
12. Congressum,
profugum, captum, vox nuntiat una;
13. Rumoremque
sui praevenit laurea belli.
14. Quo, precor,
haec effecta Deo? robusta vetusque
15. Tempore tam
parvo potuit dementia vinci?
16. Quem veniens
indixit hiems, ver perculit hostem?
17. Exitii iam
Roma timens, et fessa negatis
18. Frugibus,
ad rapidi limen tendebat Olympi,
19. Non solito
vultu, non qualis iura Britannis
20. Dividit,
aut trepidos submittit fascibus Indos.
21. Vox tenuis,
tardique gradus, oculique latentes
22. Interius:
fugere genae ieiuna lacertos
23. Exedit macies:
humeris vix sustinet aegris
24. Squalentem
clypeum: laxata casside prodit
25. Canitiem,
plenamque trahit rubiginis hastam.
26. Attigit ut
tandem coelum, genibusque Tonantis
27. Procubuit,
tales orditur moesta querelas:
28. Si mea mansuris
meruerunt moenia nasci,
29. Iupiter,
auguriis; si stant immota Sibyllae
30. Carmina,
Tarpeias si necdum respuis arces;
31. Advenio supplex,
non ut proculcet Araxen
32. Consul ovans,
nostraeve premant pharetrata secures
33. Susa, nec
ut rubris aquilas figamus arenis.
34. Haec nobis,
haec ante dabas: nunc pabula tantum
35. Roma precor:
miserere tuae, pater optime, gentis.
36. Extremam
defende famem. Satiavimus iram,
37. Si qua fuit:
lugenda Getis, et flenda Suevis
38. Hausimus:
ipsa meos exhorret Parthia casus.
39. Quid referam
morbive luem, tumulosve repletos
40. Stragibus,
et crebras corrupto sidere mortes?
41. Aut
fluvium per tecta vagum, summisque minantem
42. Collibus?
Ingentes vexi submersa carinas;
43. Remorumque
sonos, et Pyrrhae saecula, sensi.
44. Hei
mihi! Quo Latiae vires, Urbisque potestas
45. [Decidit!]
in qualem paulatim fluximus umbram!
46. Armato
quondam populo, Patrumque vigebam
47. Consiliis:
domui terras, urbesque revinxi
48. Legibus:
ad Solem victrix utrumque cucurri.
49. Postquam
iura ferox in se communia Caesar
50. Transtulit,
et lapsi mores, desuetaque priscis
51. Artibus
in gremium pacis servile recessi,
52. Tot
mihi pro meritis Lybiam Nilumque dedere,
53. Ut
dominam plebem, bellatoremque senatum,
54. Classibus
aestivis alerent, geminoque vicissim
55. Litore
diversi complerent horrea venti. |
La guerra contro Gildone
L’Africa è stata resa all’impero e riconquistata la
volta di un cielo straniero. I due mondi si trovano d’accordo sotto le
redini di un unico eroe.(1) Abbiamo riunito
l’Europa alla Libia: piena concordia ritorna tra i fratelli, l’unica cosa
che mancava alle armi patrie; un terzo tiranno (2)
è perito sotto i colpi di un valoroso guerriero. Ancora rabbrividisce
l’animo e rimanda le pubbliche manifestazioni di gioia perché, pieno
di stupore, esita a credere a così grande avvenimento.
L’esercito non aveva ancora toccato le spiagge cinifie
(3) che Gildone era già vinto. Nessuna
difficoltà, non le grandi distese né l’ostacolo dei mari
ha ritardato la vittoria. La stessa voce annuncia che v’è stata
battaglia, che è fuggito, che è stato catturato e la notizia
del trionfo ha anticipato quella della guerra.
Quale dio è autore di tali successi? Un furore
fortificato dal tempo è stato vinto in un lasso così breve?
La primavera ha annientato quel nemico che l’inverno incombente aveva annunciato.
Già Roma, temendo la rovina e spossata per la
mancanza di grano, volgeva i suoi passi alle nobili porte dell’Olimpo senza
il consueto aspetto, quello che distribuì ai Britanni il diritto
o sottomise ai fasci gli Indi smarriti. La voce flebile, lenti i passi,
gli occhi infossati e le guance scavate dalla magrezza: la fame le divora
le membra e appena riesce a sostenere sulle spalle inferme uno scudo tutto
rovinato, mentre dall’elmo, ormai troppo largo, spuntano i capelli bianchi
e trascina un’asta piena di ruggine.
Toccato finalmente il cielo, Roma abbraccia le ginocchia
del Tonante dando sfogo ai suoi tristi lamenti: “O Giove, se il destino
ha promesso alle mie mura sorgenti una durata eterna, se gli oracoli della
Sibilla restano irrevocabili, se la roccia Tarpea non ha ancora meritato
il tuo disprezzo, giungo supplice non perché il console trionfante
calpesti Arasse (4) o le nostre asce sconfiggano
i suoi abitanti portatori di faretra e nemmeno perché tu ci permetta
di conficcare le nostre aquile sulle arene rosseggianti. Questi favori
ce li accordavi un tempo: ora chiedo soltanto il cibo; abbi pietà,
padre mio, della tua gente, proteggila da questa fame che potrebbe essere
l’ultima. Il tuo sdegno, se sei adirato, non è stato saziato?
Ho sofferto mali che strapperebbero lacrime e lamenti
ai Geti (5) e ai Suebi (6);
il Parto (7) stesso inorridirebbe al racconto
di tanti disastri. Che mai dovrò riferirti? Del morbo appestante
o delle tombe riempite dalle stragi o dei tanti cadaveri sotto un cielo
infetto? Oppure del Tevere che vaga tra le mie case e minaccia la sommità
dei miei colli? Le navi galleggianti sui miei palazzi? Ho udito il rumore
dei remi e sentito rinascere l’epoca di Pirro (8).
Ahimè! Che traguardi raggiunsero le forze latine e la potenza dell’Urbe
e che vana ombra è restata della mia grandezza!
Vi fu un tempo in cui, forte delle armi del popolo e
della saggezza dei padri, dominai l’universo, asservii le nazioni alle
mie leggi e portai la vittoria da un polo all’altro. Dopo che l’ambizioso
Cesare ebbe rapito ai popoli i loro diritti (9)
e i costumi decaddero, mi ritirai, dimentica dell’antica disciplina, nel
seno di una pace che significava per me schiavitù. Per tutti questi
miei meriti ottenni la Libia e l’Egitto affinché potessi nutrire
il popolo sovrano e il senato arbitro delle guerre con le flotte estive
e su entrambi i litorali venti diversi riempissero i miei granai. |