167.
Nulla quies: oritur, praeda cessante, libido;
168. Divitibusque dies,
et nox metuenda maritis.
169. Quisquis vel locuples,
pulchra vel coniuge notus,
170. Crimine pulsator falso:
si crimina desunt,
171. Accitus conviva perit;
mors nulla refugit
172. Artificem: varios succos
spumasque requirit
173. Serpentum virides, et
adhuc ignota novercis
174. Gramina. Si quisquam
vultu praesentia damnet,
175. Liberiusve gemat, dapibus
crudelis in ipsis
176. Emicat ad nutum stricto
mucrone minister.
177. Fixus quisque toro tacita
formidine libat
178. Carnifice epulas; incertaque
pocula pallens
179. Haurit, et intentos
capiti circumspicit enses.
180. Splendet Tartareo furialis
mensa paratu,
181. Caede madens, atrox
gladio suspecta veneno.
182. Ut vino calefacta Venus,
tum saevior ardet
183. Luxuries: mixtis redolent
unguenta coronis.
184. Crinitoe inter famulos,
pubemque canoram,
185. Orbatas iubet ire nurus,
nuperque parentis
186. Arridere viris. Phalarin,
tormentaque flammae,
187. Profuit, et Siculi mugitus
ferre iuvenci,
188. Quam tales audire choros.
Nec damna pudoris
189. Turpia sufficiunt. Mauris
clarissima quaeque
190. Fastidita datur: media
Carthagine ductae,
191. Barbara Sidoniae subeunt
connubia matres.
192. Aethiopem nobis generum,
Nasamona maritum,
193. Iugerit: exterret cunabula
discolor infans.
194. His fretus sociis, ipso
iam principe maior
195. Incedit. Peditum praecurrunt
agmina longe:
196. Circumdant equitum turmae,
regesque clientes,
197. Quos nostris ditat spoliis:
proturbat avita
198. Quemque domo: veteres
detrudit rure colonos.
199. Exiliis dispersa feror:
nunquamne reverti
200. Fas erit, errantesque
solo iam reddere cives?
201. Iret adhuc in verba
dolor, ni Iupiter alto
202. Coepisset solio: voces
adamante notabat
203. Atropos; et Lachesis
iungebat stamina dictis.
204. Ne te, Roma, diu, nec
te patiemur inultam,
205. Africa; communem prosternet
Honorius hostem.
206. Pergite securae.Vestrum
vis nulla tenorem
207. Separat: et soli famulabitur
Africa Romae.
208. Dixit et afflavit Romam
meliore iuventa.
209. Continuo redit ille
vigor, seniique colorem
210. Mutavere comae. Solidatam
crista resurgens
211. Erexit galeam; clipeique
recanduit orbis,
212. Et levis excussa micuit
rubigine cornus.
213. Humentes iam Noctis
equos Lethaeaque Somnus
214. Frana regens, tacito
volvebat sidera curru.
215. Iam duo Divorum proceres,
seniorque minorque
216. Theodosii, pacem laturi
gentibus, ibant;
217. Qui Iovis arcanos monitus,
mandataque ferrent
218. Fratribus, et gemini
sancirent foedera regnis.
219. Sic, cum praecipites
artem vicere procellae,
220. Assiduoque gemens undarum
verbere nutat
221. Descensura ratis, caeca
sub nocte vocati,
222. Naufraga Laedaei sustentant
vela Lacones. |
Non
ha mai pace: quando la preda non c’è, nasce la cupidigia; i ricchi
devono temere il giorno e i mariti la notte. Chiunque sia noto per la sua
ricchezza o la bellezza della moglie, viene accusato falsamente; se non
vi sono crimini, viene invitato a un banchetto e ucciso: quello se ne intende
di ogni tipo di morte, va in cerca di succhi diversi, delle verdi bave
di serpente e di piante ignote anche alle matrigne (43).
Se qualcuno tradisce il suo orrore cominciando a gemere, verrà ucciso
proprio durante quel pasto dal pugnale di uno sgherro balzato fuori a un
suo cenno. Con tacito sbigottimento ognuno liba, inchiodato dalla paura
sul triclinio, durante questi banchetti assassini, trangugiando pallido
incerte bevande, mentre tutto intorno scorge spade sospese sul suo capo.
Quella forsennata mensa rifulge di preparativi di morte, ubriaca di strage,
atroce per le spade ma sospetta per il veleno. Appena Venere è riscaldata
dal vino, arde più furiosa la lussuria: tra le corone olezzano gli
unguenti. Costringe le giovani vedove a mescolarsi agli schiavi dai lunghi
capelli e ai giovani che cantano e a ridere dell’assassinio dei loro sposi.
Migliori sarebbero stati per loro i tormenti delle fiamme di Falaride (44)
e i muggiti del toro siculo che questi cori, e l’aver tolto loro l’onore
è ancora poca cosa! Le più nobili vengono consegnate, piene
di ribrezzo, ai mauri: le madri sidonie (45),
trascinate a Cartagine, devono sottomettersi a barbari amplessi.
Quello assegna un etiope (46)
per genero e un nasamone (47)
per marito, così che un neonato di due colori farà inorridire
la sua culla.
Egli avanza, assistito dai compagni,
più potente dello stesso imperatore; lo precedono schiere di fanti,
lo circondano squadroni di cavalleria e i re clienti che egli arricchisce
con le nostre spoglie. Scaccia tutti dalla casa degli avi e gli antichi
coloni dalle campagne. Erro in esilio per luoghi diversi; mi concederà
mai il destino di ritornare e di rendere alla loro patria i miei cittadini
dispersi?”
Il dolore sfumerebbe in parole
se Giove, dal suo trono celeste, non cominciasse a parlare mentre Atropo
annota con una punta d’acciaio le sue parole e Lachesi le unisce coi suoi
fili. “Non ti sopporteremo a lungo invendicata, Roma, e te nemmeno, Africa;
Onorio abbatterà il comune nemico. Incamminatevi sicure: nessuna
forza farà divergere il vostro cammino e l’Africa sarà al
servizio del sole di Roma:”
Dice e alita in Roma la giovinezza:
immediatamente le ritorna un novello vigore e i capelli bianchi mutano
colore: l’elmo le si riassesta sul capo, il pennacchio si raddrizza, lo
scudo riacquista il suo splendore e la lancia, divenuta leggera, luccica
perché la ruggine è caduta.
Già il Sonno guida gli umidi
cavalli della notte reggendo le briglie letee (48)
e facendo girare le stelle col suo tacito carro. I due più illustri
tra gli dei, i due Teodosi, (49)
nonno e padre, vanno a recar pace alle nazioni e a portare, su incarico
di Giove, i suoi arcani ammonimenti ai fratelli e a stringere alleanza
fra i due regni. Così gli astri di Leda, (50)
invocati nella buia notte, sostengono le vele naufragate quando l’impeto
della tempesta ha sopraffatto la perizia del pilota e la barca, sotto i
colpi continui delle onde, oscilla scricchiolando nel discendere la corrente. |