Haruspices
gli Ordini Sacerdotali dell'antica
Roma
ARUSPICI.* § 1.
Le forme tramandate. Nella bibliografia, soprattutto d’epoca classica,
la forma haruspex è infinitamente più frequente di aruspex
(fino a Varrone 16 : 6, da Cicerone a Claudiano 206:17; solo in Properzio
(2 volte) e Val. Massimo (8 volte) la forma è continuamente tramandata
senza h), la forma harispex invece solo molto sporadicamente (Terent. Phorm.
709 secondo il cod. Bemb. Fest. M. p. 229 Th. p. 284. Gramm. Lat. VII,
Velio Longo 73, 9 e 10 arispex ab ari[u]ga, quae es[se]t hostia, non aruspex.
In Plin. n. h. XXXII 23 si deve scrivere haruspices perché in lui
invece è tramandato ovunque haruspex (11 volte). Nelle iscrizioni
le forme con h sono sei volte più frequenti di quelle senza h (62:10
infatti CIL II 898. 4311. V 5704. VI 32 439. 2166. X 3680f. XI 3382. 2295
seg.), ma le forme con u solo un poco più frequenti di quelle con
i (y o e). C’è però da osservare soprattutto che harispex
(eventualmente arispex, haryspex, arrespex) è la forma principale
in Etruria (CIL XI 633. 1850. 2305. 2345. 2385. 3158. 3390. 7131. 7137;
harysp. XI 1355, arisp. 3382, arresp. 2295 seg.; invece haruspex solo XI
2952. 4194. 6363), haruspex la forma regolare a Roma e nei possedimenti
extraitalici, mentre nel resto dell’Italia le forme in i e u si alternano.
§ 2. Etimologia. Per generale supposizione Haruspex
appartiene alla famiglia gr. χορδή intestino, aisl. ggọrn intestino, garnar
pl. viscere, a.i. hirā vena, lat. hīra intestino. La u presenta delle difficoltà
e suscita sospetto l’alternante scrittura della parola nelle iscrizioni.
Perciò si è pensato che la parola o la sua prima parte sia
straniera. La derivazione dalla presunta parola caldea per il fegato HAR,
formulata per primo da A. Boissier che però l’ha ritirata, adesso
deve essere completamente abbandonata perché la lettura HAR è
totalmente indimostrata (v. Jastrow Ztschr. f. Assyriologie XX 1906,
105). Egualmente sbagliato è il tentativo di spiegare dall’etrusco
l’appariscente u in haruspex, perchè sopra abbiamo stabilito che
la forma etrusca della parola è harispex. Pokrowskij Rh. Mus. 1906,
187 fa notare che le radici in ā finiscono anche in - ŏ in parole composte
(Brugmann Grundr. II 24) e spiega haruspex da hárŏ-spex, harispex
come una formazione autonoma accanto alla vecchia forma haruspex dopo parole
composte con ĭ alla fine della prima parte, p. es. extispex (cfr. Jordan
Hermes VII 193). A giudicare dalle iscrizioni, tuttavia, è piuttosto
la forma parallela harispex con le sue varianti arispex, haryspex, ar(r)espex
da mettere in conto agli etruschi per i quali la parola era straniera.
Nella letteratura latina harispex non è mai stato una forma viva.
Anche la h è così stabile nella parola, che il tentativo
di O. Keller di spiegarla attraverso un accostamento etimologico-popolare
a ίεροσκόπος, non ha valore.
§ 3. La parola etrusca per haruspex è contenuta
nel Bilingue di Pisaurum, CIL XI 6363 [L(ars) Ca]fatius L(artis) f. Ste(llatina)
haruspe \ fulguriator; etrusco Cafates Lr. Lr. nets'vis trutnvt frontac
(v. Deecke Etr. Forsch. u. Stud. V 32). Alle due parole latine haruspex
fulguriator ne corrispondono qui tre etrusche. Ma nets'vis, che sta per
prima e nella iscrizione Fabretti 560 ter h, t. XXX nae. cicu \ peθnal
\ netsvis’ (v. Deecke op. cit..) è l’unico titolo, deve certamente
essere il titolo principale corrispondente allo haruspex. Su uno scarabeo
(Furtwängler Gemmen tav. XIX 8) si legge, accanto a un controllore
del sacrificio che tiene nella sinistra degli exta, l’aggiunta etrusca
natis, identica o almeno apparentata alla prima parte di nets'vis (Bugge
Bezz. Beitr. XI 1886, 30). Su nets Garn. 799 v. Torp Etr. Beitr. II 111.
Frontac, probabile prestito dall’osco (cfr. le iscriz. osche Fabretti 28.
79 t. L V tanas numeriis: frunter, all’incirca βροντοσκόπης), è
fulguriator. Per l’interpretazione del trutnvt, che compare solo qui, merita
di essere citata l’iscrizione di CIL XI 5824 L. Veturius \ Rufio \ [a]vispex
extispicus |[sac]erdos publicus | [e]t privatus, dalla quale risulta che
presso gli Umbri il controllo degli auspicia ed exta spettava a un sacerdote,
come presso gli aruspici etruschi, mentre agli auguri romani toccavano
solo gli auspicia. Un titolo come sacerdos andrebbe bene per le ampie incombenze
del sacerdote etrusco (cfr. CIL X 3680t.). Lydus de ost. c. 2, 8 A nomina
fra le sue fonti etrusche Τάρχοντί τε τω θυοσκόπω...<καί Κα> πίτωνι ίερει
(Torp Etr. Beitr. II 41 traduce come Deecke l’etrusco trut con sacer).
La forma falisca sarebbe secondo Deecke harac[n]a CIL XI 3159 HARAC | ACVBAT
su due mattoni). Risulta ovvio confrontare la parola frontac (v. sopra)
e, poiché il C. Clipearis M. f. nominato in 3159, è figlio
di M. C[li]peario . . harisp[ex] in 3158, interpretare haracna come ‘figlio
di harac’. Però questa formazione suffissale è documentata
finora solo in Nomina e la lettura stessa non è certa (l’originale
è perduto).
§ 4) Storia degli aruspici. A. Il periodo dei re
e quello della repubblica. Conosciamo gli aruspici solo in quanto sono
entrati in relazione con Roma. Però queste relazioni risalgono naturalmente
alla grigia preistoria, al periodo etrusco di Roma, per il quale suonano
molto credibili le parole di Livio I 56, 4 itaque cum ad publica prodigia
Etrusci tantum vates adhiberentur. La sua testimonianza IX 36, 3 habeo
auctores, vulgo tum Romanos pueros, sicut nunc Graecis, ita Etruscis litteris
erudiri solitos è stata difesa da dubbi immotivati soprattutto da
Furtwängler Gemmen III 269: ‘in quel tempo i romani impararono l’etrusco
per diventare partecipi di una cultura superiore’. Però i rappresentanti
principali della cultura greco-etrusca erano i sacerdoti, i cui libri sacri
si riferivano a quasi tutte le relazioni della vita statale e privata.
La letteratura era principalmente sacrale.
All’inizio la cultura greca trovò la strada per
Roma attraverso l’Etruria prima che cominciassero i rapporti diretti che
danneggiarono fortemente l’influenza etrusca. ‘Il greco, dice Furtwängler
Gemmen III 270, stava prima, a quanto pare, in stretto rapporto con la
popolazione plebea e con essa crebbe in potere, mentre la religione patrizia
vetero - romana era in relazione più stretta con l’etrusco.’ In
campo sacrale i libri sibillini tramandarono per primi direttamente la
scienza greca e nei primi secoli della repubblica vennero consultati ufficialmente
più spesso degli aruspici. Ma a cominciare dalla seconda guerra
punica, l’epoca della più grande agitazione nazionale, la considerazione
per gli aruspici era a Roma in continua crescita, tanto che essi
già nel secondo secolo a.C. venivano consultati sui prodigi di stato
quasi tanto quanto i libri (16 : 22), nel primo quasi esclusivamente (12:5),
come risulta chiaramente dalla proposta di legge di Cicerone (de leg. II
21 prodigia portenta ad Etruscos haruspices [et ar. Hs.], si senatus iussit,
deferunto). Una buona attestazione gliela diede nel 186 a.C. il console
Postumio nel suo discorso sulla repressione del culto greco dei Baccanali,
sebbene essi fossero arrivati a Roma dall’Etruria: in innumerevoli casi,
disse, essi avevano protetto con i pontefici e il senato romano la religione
nazionale dall’infiltrazione di culti stranieri (Liv. XXXIX 16, 7). Quanto
fosse forte il loro potere sull’animo dei romani nel II secolo a.C., risulta
chiaro da Obseq. 18 (152 a.C.) turbinis vi in campo columna ante
aedem Iovis decussa cum signo aurato, cumque aruspices respondissent magistratuum
et sacerdotum interitum fore, omnes magistratu[s] se protinus abdicaverunt.
Se essi però davano intenzionalmente risposte errate, incombeva
su di loro la morte (Gell. IV 5, 5). Anche lo stesso senato romano provvide
a che la reputazione degli aruspici etruschi non si abbassasse, inducendo
i figli degli uomini più nobili in 12 città etrusche a dedicarsi
alla loro arte (Cic. div. I 92).
Specialmente gli aristocratici a Roma erano sempre in
stretta relazione con gli aruspici che nelle loro risposte facevano spesso
venire alla luce i loro sentimenti ostili sia alla democrazia sia al dominio
dei re (Cic. har. resp. Sotto § 40). Essi cercarono di impedire nel
121 a.C. la fondazione della colonia di C. Gracco sul suolo di Cartagine
(Appian. bell. civ. I 24, 105), e ancora nel 99 la legge agraria del tribuno
del popolo Sesto Tizio (Obseq. 46), nell’anno 84 i comizi guidati da Cinna
(Appian bell. civ. I 78, 359). Nel 87 misero in guardia Ottavio da Mario
(Appian bell. civ. I 71, 326) e aiutarono Cicerone contro Catilina (Cat.
Cat. III 19 seg. Obseq. 61). D’altra parte combatterono con zelo il minaccioso
potere assoluto tanto di Silla, che diede il colpo mortale all’Etruria,
quanto di Cesare e di Augusto (Plut. Silla 7. Cic. de div. II 52. Serv.
Buc. 9, 46. Appian. bell. civ. IV 4, 15).
I generali e i governatori provinciali avevano nella
loro squadra degli aruspici come scrutatori di viscere e interpreti degli
ostenta (Liv. VIII 9, l Decio 340 a.C.; XXIII 36, 10 Fabi 215 a.C. XXV
16, 3 T. Sempronio Gracco 212 a.C.; XXVII 16, 15 Fabio 209 a.C.; XXVII
26, 14 = Plin. XI 189 Marcello 208 a.C. Medicum haruspicem praeconem menziona
Cicerone in Verr. II 27. 33. III 28, 54. 137 come gente molto influente
nel seguito di Verre). Silla (Cic. div. I 72 Postumius) e Cesare (div.
I 119. Val. Max. VIII 11, 2. Suet. Caes. 81 Spurinna) avevano propri aruspici,
una misura prudenziale facilmente spiegabile secondo quanto si è
detto sopra. Il summus haruspex, che secondo Cic. div. II 52 diede a Cesare
il dannoso consiglio di non andare subito in Africa, non era certamente
il suo Spurinna che egli aveva perfino osato accogliere in senato, cosa
che Cicerone condanna (ad fam. VI 18).
Con le guerre federate l’Etruria aveva per sempre finito
di giocare il suo ruolo politico e un secolo dopo si era estinta perfino
la sua lingua (Skutsch v. art. Etruskische Sprache, sopra vol. VI
pag. 780 § 8 ritiene a torto che gli aruspici ancora al tempo di Giuliano
leggessero i loro libri rituali in etrusco. Al contrario, Ammian. Marc.
XXV 2, 7 testimonia espressamente che essi seguivano i libri Tarquitiani,
cioè la traduzione latina). Ma solo in quel periodo la disciplina
etrusca entrò nella letteratura romana. M. Tarquizio Prisco, che
tradusse in latino i libri sacri, sembra essere stato un contemporaneo
anziano di Varrone; Nigidio e Varrone trasmisero la conoscenza della disciplina
a cerchie più vaste. L’etrusco Cecina, amico di Cicerone e alunno
di Posidonio, trattò scientificamente la dottrina dei fulmini. (Stasea,
Attalo, Arriano v. sotto §§ 16. 39).
B. Il periodo imperiale. Augusto, che cercava di proteggersi
dai fulmini con una pelle di foca e stava molto attento agli ostenta (Suet.
Aug. 90. 92), seguì certamente volentieri il consiglio di Mecenate
di nominare lui stesso alcuni aruspici (Cass. Dio LII 36, 3). Su h. Imperatoris,
Augusti, Augustorum v. § 7. Su istruzione degli aruspici (Suet. Aug.
20) costruì il tempio palatino nel quale, secondo la testimonianza
di Servius Aen. VI 72, da quel momento in poi furono custoditi, almeno
parzialmente, anche i libri etruschi insieme a quelli sibillini (libri
Begoes nymphae, quae artem scripserat fulguritarum [l. fulguriatorum secondo
CIL XI 6363] apud Tuscos). Ma emanò il divieto di interrogare gli
aruspici sulla morte di qualcuno (Cass. Dio LVI 25). Questo è il
primo decreto a noi noto contro gli aruspici. Tiberio proseguì su
questa strada quando vietò ai cittadini di interrogare gli aruspici
senza testimoni (Suet. Tib. 63), divieto che non lascia dubbi sulla diffusione
di quella usanza. Claudio invece, studioso e amico degli etruschi, cercò
di riformare e salvaguardare la dottrina e le istituzioni degli aruspici
con interventi da parte dello stato; su sua proposta il senato decise di
incaricare i Pontifices di una revisione della dottrina etrusca (Tac. Ann.
XI 15). Ora si era dunque giunti a tal punto che i Pontifices, i custodi
del patrius ritus, esercitavano la sorveglianza sugli aruspici la cui dottrina
Claudio stesso mette a confronto, come patria, con quelle straniere (externae
superstitiones). Quella revisione era però allora sicuramente necessaria
a causa del sincretismo grandemente progredito fra la religione e l’astrologia
etrusche (Nigidio) e la filosofia greca, soprattutto stoica.
Sebbene la letteratura d’epoca imperiale non menzioni
spesso gli aruspici, tuttavia risulta da singole testimonianze che essi
avevano una parte importante sia nella vita statale che privata. Venivano
spesso interrogati, come pare, sui publica fulgura (Claudio, Tac. ann.
XIII 24 urbem princeps lustravit ex responso haruspicum, quod Iovis ac
Minervae aedes de caelo tactae erant. Iuven, sat. 6, 587 atque aliquis
senior qui publica fulgura condit. Cod. Theod. XVI 10, l 320 d.C. si quid
de palatio nostro aut ceteris operibus publicis degustatum fulgore esse
constiterit, retento more veteris observantiae, quid portendat, ab haruspicibus
requiratur), probabilmente anche sui monstra (Tac. ann. XV 47. Phlegon
fr. 54). Nella ricostruzione del santuario capitolino nell’anno 70 decisero
la forma e il materiale da costruzione ed anche i riti per la costruzione
delle fondamenta (Tac. hist. IV 53). Le iscrizioni attestano che c’erano
aruspici imperiali (§ 7) e aruspici delle legioni (§ 8) e che
l’ordo haruspicum LX esisteva ancora per lo meno nel III secolo (§
5). Alessandro Severo, che aveva confidenza con la disciplina, istituì
perfino, pagate dallo stato, cattedre di aruspicina e delle altre scienze
pratiche (Hist. aug. Alex. Sev. 27, 6. 44, 4 rhetoribus, grammaticis,
haruspicibus, mathematicis, mechanicis, architectis salaria instituit et
auditoria decrevit et discipulos cum annonis pauperum filios modo ingenuos
dari iussit).
Nella vita privata le interpretazioni degli aruspici
erano molto quotate, soprattutto nel campo dell’esame delle viscere (vera
e propria aruspicina) che essi sembrano aver padroneggiato completamente.
Plinio il Giovane racconta che al tempo di Nerone l’odiato delatore Regolo
interrogava sempre gli aruspici sull’esito dei processi (Plin. ep. VI 2,
2), e Plinio il Vecchio dice n. h. VIII 102 fibris extisque, circa quod
magna mortalium portio haeret. La stessa cosa testimonia nel III secolo
Erodiano VIII 3, 7. Gli scriptores hist. Aug. fanno capire che si interrogavano
spesso gli aruspici sugli omina e prodigia imperii. Quanto profondamente
fosse radicata nelle idee del popolo la disciplina etrusca, ce lo insegnano
però meglio di tutti le opere degli scrittori cristiani (Tertulliano,
Arnobio, Lattanzio, Agostino), che la combatterono con molta serietà
come una temuta rivale del cristianesimo, e soprattutto le persecuzioni
degli imperatori cristiani.
La persecuzione degli aruspici fu iniziata nel 319 dall’imperatore
Costantino attraverso un rigoroso decreto: gli aruspici che oltrepassassero
la soglia di una casa civile, fosse anche quella di un vecchio amico, dovevano
essere bruciati, le persone che li avessero interpellati, deportate e le
spie ricompensate (Cod. Theod. IX 16, l). Poco dopo però egli limitò
il divieto espressamente a una interrogazione privata (sacrificia domestica):
sugli altari pubblici e nei templi era permesso sacrificare e interrogare
gli aruspici (ibidem IX 16, 2). Egli rinnovò dunque in pratica
il divieto di Tiberio. Lasciò sopravvivere anche l’interrogazione
statale legalizzando gli aruspici come interpreti dei fulmini nei fulgura
publica e privata (ibidem XVI 10, l).
Nell’anno 357 però Costanzo emanò un generale
divieto di ogni tipo di divinazione sotto minaccia della pena di morte
(ibidem IX 16, 4). L’imperatore Giuliano però lo abolì immediatamente
e aveva sempre aruspici nel suo seguito. Con quanta passione si dedicasse
alla aruspicina, ce lo descrive vivacemente il suo contemporaneo Ammiano
Marcellino (XXI 2, 4. XXII 12, 6 seg. XXIII 5, 10. XXV 4, 17. 6, l).
I suoi successori, che favorivano di nuovo il cristianesimo, rinnovarono
il decreto contro la magia straniera o criminale, ma permisero espressamente
la vera e propria aruspicina (esame delle viscere), se essa non veniva
fatta con cattive intenzioni (Cod. Theod. IX 16 7 seg.). Solo l’appassionato
zelota, l’imperatore Teodosio, la proibì di nuovo del tutto nel
385 (ibidem XVI 10, 9 e 12).
Dopo la sua morte sentiamo il poeta Claudiano celebrare
a Roma l’arte profetica etrusca come ancora in vita (in Eutrop. I 11).
Questo però fa forse solo parte del suo apparato erudito. Invece
nel 408 comparvero davvero a Roma degli scongiuratori di fulmini etruschi
che promisero al vescovo Innocenzo di proteggere la città da Alarico
con fulmini attirati per magia (Zosim V 41). Tuttavia egli non osò
soddisfare la loro richiesta di poter esercitare pubblicamente la loro
arte nel foro, per cui essi se ne ripartirono. Nel 409 Onorio fece bruciare
gli scritti dei matematici; quelli vegonici erano già stati bruciati
da Stilicone (Rutil. Itin. II 5l) insieme ai sibillini. Ma l’esercizio
dell’aruspicina non era legato a questi libri e proibizioni contro di essi
le troviamo ancora nel VII secolo d.C. (v. Müller Etrusk. II 18, 65).
Una singolare testimonianza che lo studio e la conoscenza della disciplina
etrusca non erano ancora scomparsi nel VI secolo, ci viene fornita dal
libro di Joh. Laurentius Lydus περί
διοσημείων, che contiene cose molto
più vere e preziose di quello che ha pensato Wachsmut (Praefatio).
§ 5. Ordo haruspicum LX. Secondo la tradizione
la dottrina rivelata da Tagete a Tarquinia (v. sopra vol. VI pag. 725)
sarebbe stata registrata prima dai nobili, i lucumoni, dei dodici stati
(Cic. div. II 50. Fest. 359 v. Tages. Censor. IV 13 disciplinam quam lucumones
tum Etruriae potentes exscripserunt. Comm. Bern. Lucan. I 636 duodecim
principum pueris). La dottrina stessa aveva anche un’impronta puramente
patrizia, come attestano già le parole che compaiono spesso
principes, reges regalia ecc., ed era fin dall’inizio in possesso della
nobiltà nella quale essa veniva tramandata da padre in figlio (Cic.
div. I 92, v. sotto; de leg. II 9, 2 Etruria, principes disciplinam doceto.
Tac. ann. XI 15 primores Etruriae sponte aut patrum Romanorum impulsu retinuisse
scientiam et in familias propagasse). Ancora all’epoca di Cicerone il nobile
Cecina aveva appreso la disciplina da suo padre (Cic. ad fam. VI 6) e le
iscrizioni XIV 164 patri et magistro e XIII 3694 ob memoriam - - magistratorum
et parentum quorum dimostrano che questa usanza sopravviveva ancora. Insieme
agli aruspici ufficiali comparvero anche aruspici privati che fecero dell’uso
di quell’arte un mestiere (v. p. es. Cic. div I 132 vicani aruspices...qui
quaestus causa hariolantur) e abbassarono il credito della professione
(Cic. div. 11 51 Cato mirari se aiebat quod non rideret haruspex, haruspicem
cum vidisset; div. I 132 versi di Ennio, 131 di Pacuviuo di ugual contenuto;
cfr. Plaut. Mil. 692 haruspicae. Aruspex vel pexor rusticus si chiamava
una commedia di Pomponio secondo Nonio 516 M. 830, 15 L.). Quando perciò
i figli della nobiltà mostrarono pochissima propensione a dedicarsi
alla disciplina, intervenne a dare regole il senato romano, al quale stava
a cuore attrarre degni rappresentanti della disciplina per l’interpretazione
dei prodigia, e decretò che in ogni stato della federazione etrusca
un certo numero di giovani nobili si formasse per quella professione (Cic.
div. I 92 quocirca bene apud maiores nostros senatus tum, cum florebat
imperium [= II secolo a.C.], decrevit, ut de principum filiis sex singulis
Etruriae populis in disciplinam traderentur, ne ars tanta propter tenuitatem
hominum a religionis auctoritate abducerentur. Val. Max. I l, 1 ut … decem
principum filii senatus consulto singulis Etruriae populis perpiciendae
sacrorum disciplinae gratia traderentur. Müller Etrusk II 4, 13 e
Christ scrivono X ex invece di sex, Schenkel in Bormann Österr. Jahresh.
1899, 134, 5 [se]X, Traube in Furtwängler Gemmen III 271 A ritiene
sia sex in Cicerone sia decem in Val. Massimo congetture dello scrivente
al posto di un numero caduto che forse era V). Questo fu l’inizio di un’organizzazione
e di una regolare rappresentanza dei dodici stati etruschi dalla quale
è senza dubbio scaturito il 60 (5 x 12) dell’ordo haruspicum LX;
la tradizione non ci permette però di capire se questo numero è
stato fissato già allora. Nella sua proposta di legge Cicerone de
leg. II 9, 21 dice solo brevemente: Etruria principes disciplinam doceto.
La sua espressione summus haruspex (div. II 52) dimostra che allora esisteva
una gerarchia degli aruspici. La prima testimonianza certa dell’ordo haruspicum
LX ce la dà un’iscrizione della fine della repubblica, trovata nel
1890 davanti alla Porta Salaria a Roma: CIL VI 32439 L. Vinulleius L. f.
Pom. Lucullus, arispex ex sexaginta...(v. Gatti Boll. com. 1890, 140 segg.
Bormann Österr. Jahresh. II 1899, 134). Bormann pensa che Augusto
abbia creato per primo questa corporazione poiché, secondo Cass.
Dio. LII 36, 2, l’etrusco Mecenate gli diede il consiglio di nominare lui
stesso alcuni aruspici e auguri. Questa è però solo una supposizione
incerta. Nella letteratura l’ordo viene toccato solo una volta, precisamente
nel discorso, riportato da Tacito, dell’imperatore Claudio in senato sulle
riforme che si riferivano al collegium haruspicum e alla sua dottrina (Tac.
ann. XI 15; v. sopra).
Che questa corporazione avesse la sua cassa e quindi
il suo centro ufficiale a Tarquinia, dove secondo la tradizione il fondatore
della religione, Tagete, sarebbe sorto dalla terra (Cic. de div. II 50),
è stato dedotto da Bormann op. cit. 135 dall’iscrizione CIL XI 3382...ex
ordine haruspicum LX, curatori arcae bis, IIIIvir. Iure dicundo, [i]tem
aedili.... Là sono stati trovati anche i resti di due iscrizioni
analoghe che celebrano due famosi maestri, il traduttore della disciplina
M. Tarquizio Prisco e un altro il cui nome manca – e probabilmente erano
collocate sotto le loro effigi nell’ufficio degli aruspici (CIL XI 3370.
Bormann op. cit. 129 segg.).
Il presidente del collegio si chiamava magister publicus
haruspicum (CIL VI 2161; probabilmente si deve anche XI 4194 [Interamna]
completare [mag. publ. h.]aruspicum LX bis, dove Bormann propone [mag.
ordinis]) o anche haruspex primarius de LX (Lugdunum XIII 1821). Così
io capisco anche XIV 164 (Ostia) filius patri et magistro, harp de LX (=
haruspici primario de LX), che Mommsen erroneamente interpunta e completa
così: filius patri et magistro (haruspicum) p(ublico) de LX. In
VI 2164 segg. due fratelli M. Valerio Quirino Saturnino e Basso, che erano
stati tribuni militari della leg. III Cirenaica, sono nominati harispices
maximi. Anche questa espressione si riferisce, come il summus haruspex
in Cic. div. II 52, al presidente della corporazione. I membri si chiamano
arispex ex sexaginta (VI 32439), haruspex de LX (VI 32275), ex ordine haruspicum
LX (VI 2162. XI 3382) o semplicemente ordinatus (VI2166). Molti di quelli
menzionati in queste iscrizioni erano persone stimate: VI 2161 pontifex
e dictator Albanus. XI 3382 IIIIvir iure dicundo e aedilis a Tarquinia.
XI 4194 IIIIvir i. d. e tribuno militare. VI 2164 seg. tribuni militari;
lo arespex ordinatus VI 2166 invece soldato semplice. Delle 12 iscrizioni
8 si riferiscono a Roma, dove l’ordo certo dispiegava principalmente la
sua attività. Che nel III secolo d.C. esso possedesse là
un ufficio, è dimostrato dall’iscrizione VI 2161, che contiene una
donazione all’o(rdini) har. LX.
§ 6. Gli aruspici cittadini. Anche le colonie e
i municipi avevano i loro aruspici ufficiali, har. publici: CIL X 3680
seg. Miseno. XII 3254 Nimes. XIII 3694 haruspices publ(ici) c(ivitatis)
Tr(everorum). III 1114 seg. Apulum, Dacia har(uspex) col(oniae) ss. Atti
d. Società istriana (Parenzo) XXIV p. 252 harusp. publ. dec(urio)
Pol(ae). La fondazione XIII 6765 (Mainz) haruspicib(us) col(legis) d. d.
indica che essi formarono anche qui un collegium e possedevano un ufficio.
Lo har(uspex) publ(icus) primarius IX 1540 era certamente il presidente
del collegio di Benevento.
Gli aruspici erano spesso uomini importanti nelle loro
città: V 99 Como IIIIvir iure dicundo (XI 3382. 4194, v. sopra.).
IX 4622 Cascia, Sabin. praefectus iur. dic. ex decreto ordinis; inoltre
VIviri: V 99 Como. X 5420 seviro Aquini. XI 633 Faenza. XII 3254 Nimes
VIvir Aug(ustalis); e VIIIviri: IX 4622, v. sopra IX 5447 Falerio, Piceno
VIIIvir gratuitus dec(urionum) cons(ulto). L’aruspice prenestino XIV 2992
era allectus inter decuriones, quello di Pola decurio. Al membro dell’ordo
LX Oppio Placido il senato di Lione aveva regalato un posto per la sepoltura
(XIII 1821). Lo har. publ. di Miseno X 3680 era sacerdos e ex genere sacerdotum
creatus. A Poitiers, XIII 1131, nel II secolo, troviamo perfino un cavaliere
romano.
I funzionari cittadini avevano i propri aruspici stipendiati
che nella Lex Coloniae Genetivae dell’anno 44 a.C. (CIL II 5439 Urso, Spagna)
vengono menzionati al penultimo posto fra i servitori (lictores binos,
accensos sing., scribas binos, viatores binos, librarium, praeconem, haruspicem,
tibicinem) e prendono uno stipendio minore dei littori: quello del duumviro
HS D, dell’edile HS C (sbagliato per D). Dall’espressione XI 2592 (Tuscana)
decurialis haruspex sembra risultare che questi aruspici erano divisi in
decurie come gli altri funzionari subordinati.
§ 7. Gli aruspici imperiali. Gli imperatori seguirono
l’esempio di Silla e Cesare che avevano aruspici propri. Su consiglio di
Mecenate v. sopra § 4 B. L’aruspice di Galba era lo scrittore, apprezzatissimo
da Plinio, Umbricio Migliore (Suet. Galba 19. Tac. hist. I 27,2. Plin.
n. h. X 19 haruspicum in nostro aevo peritissimus; ind. auct. l. XI qui
de etrusca disciplina scripsit). E le iscrizioni confermano che c’erano
aruspici imperiali i quali erano persone stimatissime e, almeno nel III
secolo, funzionari stipendiati (VI 2161. 2163. 2715. X 4721). Uno adiutor
haruspicum imperatoris era secondo VI 2168, cavaliere romano e pontifex
Albanus. La X 4721 menzionava haruspex Augusti) n(ostri). L. Vibio Fortunato
era contemporaneamente magister a studiis e procurator ducenarius stationis
hereditatum. Lo haruspex Augustorum C[C] (= ducenarius) L. Fonteio Flaviano
VI 2161 era addirittura pontifex e dictator Albanus. Egli apparteneva all’ordo
XL come anche lo harusp. Augg. menzionato in VI 2163.
§ 8. Aruspici delle legioni. Fin dall’antichità
nei quadri dei generali e dei governatori c’erano degli aruspici (v. sopra
§ 4A). Abbiamo già trovato fra gli aruspici tribuni militari
e soldati semplici (CIL VI 2164 - 2166. XI 4194). Ma come ufficiale militare
lo harus(pex) leg(ionis) compare solo in iscrizioni del III secolo d.C.
(VIII 2809. 2586 l. 57 Lambaesis, Numidia, v. v. Domaszewski Die Religion
des röm. Heeres, Westdeutsche Ztschr. XIV 111). Cfr. CIL VIII 2567,
20 Helvius Calvus Cas. har. (Cas. = Castris Lambaesitanis) e Pais Suppl.
Ital. 39 (Gallia cisalp.) mil. cho. VII prae anis XIIX isde harispex. Aureliano
proibì ai suoi soldati di dare denaro agli aruspici (Hist. aug.
Aur. 7, 8 a medicis gratis curentur, haruspicibus nihil dent).
§ 9. Liberti come aruspici. La religione etrusca
esercitava, come s’è detto sopra § 5, fin dall’inizio nella
nobiltà, ma abbiamo anche visto che essa non conservò questo
incarico, così che il senato romano dovette ripetutamente intervenire
per esortarla a quello scopo. Fra gli aruspici delle iscrizioni compaiono
perfino alcuni liberti, ma, per quanto si può vedere, solo come
aruspici privati: CIL IX 3964 (Alba Fucens) P. Pilienus P. l. Hermaphilus
haruspex. 4908 (Trebula Mutuesca) Q. Caedi Q. l. Sar. haruspex. XI 1355
(Luna). Gli aruspici menzionati in IX 5447. X 5420. 7355. XI 633 erano
sposati con liberte. Alessandro Severo salvaguardò la disposizione
che gli aruspici statali dovessero essere nati liberi, quando assegnò
ai professori dell’aruspicina figli dei poveri come alunni (Hist. aug.
Alex. Sev. 44, 4 pauperum filios modo ingenuos).
§ 10. Haruspices e Sacerdotes. Gli aruspici non
facevano parte dei sacerdozi romani, ma venivano di regola chiamati ogni
volta dall’Etruria quando lo stato aveva bisogno di loro. Cicerone li definisce
ancora Tusci ac barbari (nat. deor. II 11), e il ritus etruscus venne strettamente
distinto da quello patrius. Ma l’intervento del senato romano per il mantenimento
di quella disciplina dimostra meglio di ogni altra cosa che i romani non
potevano fare a meno di loro. L’impressione di estraneità scomparve
sempre più quando da un lato l’Etruria si fuse completamente nello
stato romano e dall’altro furono ammesse nuove religioni straniere a fronte
delle quali gli aruspici rappresentavano la vecchia eredità (Liv.
XXXIX 16, 7 Postumio 186 a.C. Tac. ann. X l, 15 Claudio). Infine, quando
il senato su richiesta di Claudio pose la disciplina sotto il controllo
dei Pontifices (v. sopra), essa fu accolta, si può dire ufficialmente,
nel culto statale.
Perciò non colpisce che fra gli aruspici dell’epoca
imperiale si trovi un flamen Martialis, CIL XIV 4178c (Lanuvio o Ariccia),
anzi, nel III secolo addirittura un pontifex VI 2161. Più
spesso però li troviamo al servizio di dei stranieri e precisamente
fuori Roma: VI 2161 dictator Albanus. XIV 4178c allectus inter dictatorios
(Albanos?). VI 2168 pontifex Albanus. VI 2175 [prin]cippum cabe[nsis] mont[is
Albani] (Mo.). X 3680 seg. (Miseno) sacerdoti et aruspici publico ex genere
sacerdotum creato. V 5704 (Milano) arispex D(eum) M(atris) s(acerdos);
così io completo secondo IX 1540, non con Mommsen D(ei) M(ithrae).
V 5598 (ibidem) aedituus templi Fortunae. III 1114 seg. (Apulum, Dacia)
[Soli in]victo (1115 Veneri Victrici)….Valens har. col. ss et antistes
huiusque loci. IX 1540 (Benevento) Attini sacr. et Minervae Parachintiae
… praeeunte Flavio Liberali, har. publ. primario.
§11. Gli aruspici etruschi? Gli aruspici menzionati
nella letteratura. (v. Thulin E.D III 154) portano tutti bei nomi etruschi
o comuni in Etruria, perfino lo haruspicinae peritus Aprunculis Gallus
nel seguito di Giuliano (Ammian. Marc. XII 1, 2; cfr. apruntial CIE 3834).
Non c’è dubbio che con principum filii in Cic. div. I 92 e Val.
Max. I 1, 1 si intendano nobili etruschi, come dice espressamente Cicerone
nelle leggi Etruria principes disciplinam doceto. Ma poiché fra
gli aruspici dell’epoca imperiale ci sono perfino liberti greci, si capisce
che non era più richiesta una nascita etrusca (cfr. Suet. Domit.
16 haruspicem ex Germania missum). Uno sguardo ai nomi degli aruspici nelle
iscrizioni di questo periodo dimostrerà la stessa cosa (v. Thulin
E.D. III 155 seg.). Quando Severo assegnò ai professori di aruspicina
figli di poveri come alunni, non si parlò che essi dovessero essere
etruschi. All’epoca di Giuliano c’era una completa libertà (Ammian.
Marc. XXII 12, 7 anno 362: et quisque, cum impraepedite liceret, scientiam
vaticinandi professus… sine fine vel praestitutis ordinibus).
La dottrina: disciplina Etrusca.
§ 12. Poiché sopra vol. VI pag. 727 ho dato
una breve visione d’insieme dei settori della disciplina etrusca, tratterò
qui più dettagliatamente il contenuto delle tre parti libri fulgurales,
haruspicini, rituales.
Libri fulgurales.
§ 13. I libri dei fulmini contengono la dottrina
dell’esame e dell’interpretazione, dell’espiazione e della supplica dei
fulmini; la superiorità degli etruschi in quest’arte viene sottolineata
spesso (Cic. div. I 92 Etruria autem de caelo tacta scientissume animadvertit.
Sen. nat. quaest. II 32. Dionys. IX 6, 4). Dobbiamo le nostre conoscenze
in questo campo specialmente alle descrizioni di Seneca nat. quaest. II
31- 41 e alla n. h. II 137-148 di Plinio che si basano essenzialmente sull’opera
dell’etrusco Cecina, il contemporaneo di Cicerone, ma anche su sparse notizie
in Servio, Festo, Cicerone, Livio e altri. C’è sicuramente molto
d’etrusco anche nel Fulgurale Labeonis e nel Tonitruale Nigidii in Joh.
Lydus de ost. c. 47-52, 26-38.
§ 14. Le regioni del cielo e gli dei dei fulmini.
Per l’osservazione dei fulmini gli etruschi dividevano il cielo in 16 regioni,
mentre i romani ne distinguevano solo 4 (Cic. div. II 42. Serv. Aen. VIII
427); 16 sono anche le regioni del fegato di bronzo di Piacenza (Körte
Röm. Mitt. XX 348-379), e in 16 regioni del cielo abitano gli dei
secondo Marziano Capella I 41-61 (v. Religionsgesch. Versuche und Vorarbeiten
III: 1 Thulin Die Götter des Mart. Cap. u. der Bronzeleber von Piaz.);
sul numero 16 v. Thulin op. cit. 69, l. Jastrow Relig. Babyloniens II 406,
3‚ ‘proprio 16 un numero spesso menzionato nelle relazioni sull’esame del
fegato’. Che questa ripartizione fosse orientata verso sud, lo attesta
Plinio n. h. II 143: in sedecim partes caelum in eo spectu divisere Tusci.
prima est a septentrionibus ad aequinoctialem exortum, secunda ad meridiem,
tertia ad aequinoctialem occasum, quarta obtinet quod reliquum est ab occasu
ad septentriones. Has iterum in quaternas divisere partis, ex quibus octo
ab exortu sinistras, totidem e contrario appellavere dextras (l’interpretazione
di Korte Röm. Mitt. XX 360, l (octo ab exortu = octo ab exortu ad
occasum) è a mio parere linguisticamente impossibile e viene confutata
dalle parole precedenti Plin. II 142 laeva prospera existimantur quoniam
laeva parte mundi ortus). I fulmini orientali erano dunque fortunati, quelli
occidentali portavano sfortuna, ma quanto più a nord erano (il nord
era l’abitazione degli dei), tanto più significativi apparivano
(cfr. Serv. Aen. II 693 significatiora quoniam altiora et viciniora domicilio
Iovis): i più spaventosi erano quelli da nord ovest (Plin. II 143
maxime dirae quae septentrionem ab occasu attingunt), i più fortunati
quelli da nord est (144 cum a prima caeli parte venerint et in eandem concesserint,
summa felicitas portenditur, quale Sullae dictatori ostentum datum accepimus).
Perciò gli aruspici osservavano esattamente la direzione non solo
del fulmine in arrivo ma anche di quello che tornava indietro (Plin. II
143 itaque plurimum refert unde venerint fulmina et quo concesserint. 142
nec tam adventus spectatur quam reditus, sive ab ictu resilit ignis sive
opere confecto aut igne consumpto spiritus remeat; cfr. Sen. nat. quaest.
II 57, 4. Lucret. VI 86 segg. Cic. div. II 45. Dionys. IX 6, 4). Secondo
la direzione distinguevano anche i fulmini di terra (infera, terrena) e
quelli di cielo (Plin. II 138 Etruria erumpere terra quoque arbitratur
quae infera appellat..., omnia e superiore caelo decidentia obliquos habent
ictus, haec autem quae vocant terrena rectos). Ora, se noi ritroviamo questi
insegnamenti puramente etruschi (reditus fulminis, ictus obliqui et recti)
un po’ modificati in Arriano Stob. Floril. I p. 238 (v. Thulin E.D. I 63
seg.), allora è dimostrato che Arriano ha accolto cose etrusche.
Oppure ha usato Plinio o una fonte a loro comune. Questo Arriano può
dunque benissimo essere il famoso scrittore (v. v. Wilamowitz Hermes XL
1905).
§ 15. I 9 dei dei fulmini e gli 11 manubi. Gli dei
erano suddivisi nelle 16 regioni del cielo. A seconda della direzione,
gli aruspici potevano dunque decidere quale dio avesse mandato il fulmine.
C’erano infatti 9 dei che potevano lanciare fulmini (Plin. n. h. II 138).
Il principale dio del fulmine era Tin(i)a-Iuppiter, che mandava i suoi
fulmini da tutte le regioni (Serv. Aen. VIII 427. X 177. Mart. Cap. I 46
ut est in omnibus), ma soprattutto possedeva tre regioni a nord, dove lo
troviamo sia in Marziano Capella sia sul bronzo (nelle regioni del bronzo
7 e 8 tin, nelle confinanti regioni interne 18 tinsθ in Körte Röm.
Mitt. XX 355, o Reg. 15. 16 e 1’ secondo Deecke. In Mart. Cap. I 45-47
nelle prime 3 regioni; cfr. Ps.-Acro Hor. carm. I 12, 19 secundum aruspicum
dicta vel disputationes, qui Iovem primam secundam et tertiam partem caeli
solum volunt in fulminibus tenere. Che il calcolo comincia a nord, lo abbiamo
già visto sopra in Plin. II 143).
Giove aveva però anche tre tipi di fulmine o manubi
(Serv. Aen. l 42 in libris Etruscorum lectum est iactus fulminum manubias
dici. Plin. II 138 Iovem trina iaculari). a) Il primo, che egli scagliava
su decisione propria, era blando e d’ammonimento (Sen. nat. quaest. 11
41 monet et placata est). b) il suo secondo manubia, sul quale doveva ascoltare
prima il suo consiglio, cioè i dodici dei o di Consentes (Complices),
arrivava con un tuono minaccioso e forza dirompente ed era sempre pericoloso
(Sen. nat. quaest. II 41 secundam mittit quidem Iuppiter sed ex consilii
sententia, duodecim enim deos advocat; - ne prodest quidem impune. Fest.
129 alterae quae maiores sint ac veniant cum fragore discutiantque). Questi
di Consentes corrispondono ai dodici θεοί βουλαίοι degli egiziani, alle
immagini dello zodiaco, che compaiono nel calendario contadino romano
come sei coppie di dei, fra i quali mentre il dio tramonta la dea sorge
e viceversa (Boll Sphaera 478. Varrone in Arnob. a. n. III 40 hos Consentes
et Complices Etrusci - nominant quod una oriantur et occidant una, sex
mares et totidem feminas, nominibus ignotis et miserationis parcissimae).
Marziano I 41 li chiama senatores deorum, qui Penates ferebantur Tonantis
ipsius (cfr. Arnob. III 40 penates Iovis secondo Nigidio) e li pone nella
seconda regione vicino a Giove.
(c) Il terzo manubia che devasta col fuoco e trasforma
tutto poteva inviarlo solo con il consenso delle alte divinità velate,
le Moire degli etruschi (Sen. nat. quaest. II 41, 2 tertiam manubiam idem
Iuppiter mittit sed adhibitis in consilium diis quos superiores et involutos
vocant, quia vastat in quae incidit et utique mutat statum privatum et
publicum quem invenit: ignis enim nihil esse quod fuit patitur).
Delle altre 8 divinità dei fulmini che avevano
ognuna un manubia, conosciamo solo uni-Iuno, menrva-Minerva, s’eθlans-Vulcano
(Serv. Aen. I 42), maris-Marte e satres-Saturno (Plin n. h. II 139. Serv.
Aen. VIII 429). I fulmini di Giove erano rosso sangue (Ps.-Acro Hor. carm.
l 2, l-4 Iunonis (così io leggo invece di omnes) manubiae albae
et nigrae pallida coruscatione esse dicuntur, Iovis rubra et sanguinea),
quelli di Giunone sbiaditi e apportatori di pioggia (Serv. Aen. I 42 cum
nubes suae sint. VIII 429), quelli di Marte rossicci (Serv. Aen. VIII 429)
e capaci di appiccare il fuoco (Plin. II 139), quelli di Minerva apportatori
di tempesta (Serv. Aen. XI 259). Saturno mandava i terribili fulmini invernali
(Plin. II 138 seg. infera, v. sopra; l’espressione a Saturnii sidere indica
la diversa interpretazione astrologica della dottrina etrusca).
§ 16. Tipi di fulmine. l. Secondo la forza e l’efficacia
del colpo di fulmine si distinguevano secondo Sen. nat. quaest. II 40 tre
tipi: a) genus quod terebrat, il fulmine prodigioso, che trapassava velocemente
e colpiva l’interno senza danneggiare le parti esterne (= Plin. n. h. II
137 quod clarum vocant. Serv. Aen. II 649 quod afflat. Sen. nat. quaest.
II 31. 53); b) genus quod dissipat, il fulmine che frantuma, legato a tuono
potente e tempesta (= Serv. Aen. II 649 quod findit. I 43 disiiciens idemque
fragosum); c) genus quod urit, il fulmine che accende il fuoco o annerisce
(manifesta ardoris vestigia imprimit, quod aut urit aut fuscat). Secondo
Sen. nat. quaest. 11 41 questa suddivisione è comune agli etruschi
e ai filosofi (greci) e cose molto simili si ritrovano in Arist. meteor.
III 1,7 (Doxogr. 452 di Diel. Lydus de mens. c. 175. 178), e ancor più
in Arrian. Stob. I p. 237 seg., che ha riunito il greco e l’etrusco. Ma
quello che hanno preso in prestito dal greco, gli etruschi l’hanno in ogni
caso utilizzato liberamente poiché questi tre tipi corrispondono
esattamente ai tre manubia di Giove con i quali Verrio Flacco, probabilmente
seguendo Cecina, li paragona espressamente: Fest. 129 Manubiae Iovis tres
creduntur esse, quarum unae sint minimae, quae moneant placataeque sint,
alterae quae maiores sint ac veniant cum fragore discutiantque, tertiae
his ampliores, quae. cum igne veniant etc.
2) La dottrina contenuta nell’idea che un segno più
potente vince, viene meglio specificata Fest 214 Peremptalia fulgura Graccus
(Th. d. P. Grapus †) ait vocari, quae superiora fulgura vel (ut Hs.) portenta
vi sua peremant duobus modis, prioribus tollendis, aut maiore manubia,
ut tertia secundae, secunda primae cedat. nam ut omnia superentur fulgure
sie ictum fulgur manubiis vinci. Fest. 245. Sen. nat. quaest. II 49, 2).
Essa appartiene notoriamente anche alla disciplina augurale romana (Serv.
Aen. III 374 auspiciorum gradus; Ecl. IX 14 minora enim auguria maioribus
cedunt). Attestata si chiamano invece i fulmini che confermano i segni
dati in anticipo (Sen. nat. quaest. II 49, 2 quae prioribus consentiunt.
Fest. Paul. 2. Fest. 289 renovativa).
3. Si distinguevano inoltre fulmini che per noi hanno
un significato da quelli che non significano nulla e da quelli il cui significato
ci sfugge (Sen. nat. quaest. II 50 seg.). La frase nota nella dottrina
augurale romana auspicium observantis est (Sen. nat. quaest. II 32, 6)
è dunque anche etrusca, come Plin. n. h. XXVIII 17 sottolinea chiaramente
(Thulin E.D. I 69 seg.).
4. Alla suddivisione romana in auspicia impetrativa e
oblativa corrisponde in parte (a e c) la suddivisione etrusca dei fulmini
(Sen. nat. quaest. II 39; cfr. Serv. Aen. VIII 524) in a) genus consiliarium:
cum aliquid in animo versantibus suadetur fulminis ictu aut dissuadetur;
b) e genus auctoritatis: post rem factam venit quam bono futuram malove
significat e c) genus status: ubi quietis, nec agentibus quicquam nec cogitantibus
quidem, fulmen intervenit et aut minatur aut promittit aut monet. Un fulmen
consiliarium v. Ammian. Marc. XXIII 5, 12. Al genus status appartengono
i monitoria, quibus docetur quid cavendum sit (Cecina in Sen. nat. quaest.
II 49), pestifera, quae mortem exiliumque portendunt (ibidem), dentanea,
quae speciem periculi sine periculo adferunt (ibidem; Schmeisser scrive
ostentanea secondo Serv. Aen. VIII 429 ostentatorium est, quo terror incutitur),
fallacia, quae per speciem alicuius boni nocent (ibidem), postulatoria,
quibus sacrificia intermissa aut non rite facta repetuntur (ibidem = Fest.
245 postularia).
5. Secondo la durata dell’azione gli etruschi distinguono
fulmina perpetua, finita e prorogativa.
a) I perpetua dimostrano le relazioni della disciplina
etrusca con l’astrologia. Come l’oroscopo dei Caldei, i segni dati al momento
della nascita (fulmina privata, familiaria) valgono infatti per tutta la
durata della vita di una persona. Ma altri avvenimenti importanti della
vita vengono rapportati al momento della nascita, come quando uno diventa
sui iuris o si sposa per la prima volta (Sen. nat. quaest. II 47. Plin.
n. h. II 139). Anche i segni dati nel giorno della fondazione (fulmina,
publica) si riferiscono all’intera esistenza della città.
b) I finita sono quelli definiti temporalmente (Sen.
op. cit. quae ad diem utique respondent. Plin. II 141 in fulgurum interpretatione
eo profecit scientia, ut ventura alia finito die praecinat . . .). Quando
un fulmine strappò via la prima lettera del nome Caesar sotto la
sua statua sul Campidoglio, gli aruspici diedero ad Augusto la seguente
interpretazione: dopo cento (C) giorni egli sarebbe stato divinizzato perché
aesar era la parola etrusca per Dio (Suet. Aug. 97. Cass. Dio LVI 29. Su
aisar v. Skutsch sopra vol. VI pag. 775).
c) I prorogativa sono quelli la cui minaccia può
essere differita attraverso riti di espiazione fino a dieci anni (per lo
stato fino a trenta) (Sen. op. cit. quorum minae differri possunt, averti
tollique non possunt, Plin. II 139 ceterum existimant non ultra decem annos
portendere privata -, publica non ultra tricesimum annum. Cfr. sotto §
39).
§ 17. Interpretazioni dei fulmini. Il luogo o l’oggetto
colpito forniva di regola da solo l’interpretazione. Fulmina regalia si
chiamavano quelli che si abbattevano in piazze o edifici della città,
portando allo stato la minaccia di liti interne e sovvertimento della costituzione
esistente (Fulgurale Labeonis, Lydus de ost. 47 c (εμφυλίους τε πολέμους καί στάσεις του πολιτεύματος ανατροπήν δηλοί), all’epoca della dominazione
dei re quella della morte del re, all’epoca della repubblica quella dell’odiata
regalità (Sen. op. cit. II 49 regalia cum forum tangitur vel comitium
vel principalia urbis liberae loca, quorum significatio regnum civitati
minatur).
I fulmini che colpivano i templi venivano interpretati
secondo il dio cui erano dedicati. Un fulmine nel tempio di Giunone veniva
messo in relazione con le donne (Liv. XXVII 37, 7). Se qualcuno aveva peccato
contro Giove, il fulmine colpiva una quercia nel suo boschetto, dice un
interprete di Virgilio (Iun. Philarg. Verg. Buc. I 17, cfr. Ps.-Acr. Hor.
carm. I 12, 59 seg.). Secondo il Fulgurale Labeonis in Lydus de ost. 47
i fulmini nei templi erano pericolosi per i nobili e i cortigiani (τοις ενδόξοις του πολιτεύματος καί τοις περί τήν βασιλείαν αυλήν ό κίνδυνος ενσκήψει). Un fulmine che avesse colpito un tempio chiuso di Giove minacciava
di morte i peccatori e i loro figli (Obseq. 44, 102 a.C. Aedes Iovis clusa
fulmine icta. cuius expiationem qui primus monstraverat Aemilius Potensis
aruspex praemium tulit, ceteris celantibus quod ipsis liberisque exitium
portenderetur). Seneca nat. quaest. II 49, 2 menziona fulmina atterranea
quae in cluso fiunt [inclusa feriunt coni. Gercke] e fulmina obruta, quibus
iam prius percussa nec procurata feriuntur.
Fulmini nelle mura si riferivano al nemico, secondo Fulgurale
Labeonis, Lyd. de ost. 47 c: i nemici si dovevano aspettare dalla parte
in cui il muro veniva danneggiato dal fulmine.
Tipiche interpretazioni etrusche sono le seguenti. Nell’anno
65 a.C. furono chiamati a Roma aruspici da tutta l’Etruria per potenti
colpi di fulmine. Le tavole della legge si fusero: gli aruspici annunciarono
il declino delle leggi e del diritto. La statua del fondatore della città
fu danneggiata: la città e l’imperium erano in grave pericolo. Vennero
rovesciate statue di uomini famosi: il pericolo veniva da persone nobili.
Venivano frantumate immagini degli dei: si dovevano proteggere i templi
dall’incendio (Cic. Cat. III 19; div. I 20. II 45.47. Obseq. 61 b. Arnob.
VII 40. Aug. civ. d. II 27. Cass. Dio XXXVII 9. l seg.).
Ai cavalieri e alle vergini veniva annunciata infamia
perché la figlia di un cavaliere romano era stata uccisa e denudata
da un fulmine e colpito l’ornamento del suo cavallo (114 a.C., Obseq. 37.
Oros. V 15, 21. Plut. quaest. Rom. 83). La morte del soldato Gioviano ad
opera di un fulmine era particolarmente nefasta per il suo nome importante
(Ammian. Marc. XXIII 5, 12 seg.).
Al nobile che sopravviveva a un fulmine veniva profetizzata
molta fortuna: i suoi discendenti avrebbero conquistato grande gloria (Serv.
Aen. II 649 sane de fulminibus hoc scriptum in reconditis invenitur, quod
si quem principem civitatis vel regem fulmen afflaverit et supervixerit,
posteros eius nobiles futuros et aeternae gloriae. Su principem e regem,
v. § 5). Cfr. Fest. 245 Pullus Iovis dicebatur Q. Fabius, cui Eburno
cognomen erat propter candorem, quod eius natis fulmine icta erat.
§ 18. L’espiazione dei fulmini. Attraverso la giusta
espiazione si era in grado di respingere, mitigare o differire le minacce
dei fulmini (Sen. op. cit. 11 37 secondo Cecina procuranda existimant fulmina
et expiationes non dubitant prodesse aliquando ad summovenda pericula,
aliquando ad levanda, aliquando ad differenda. Sui fulmina prorogativa
v. sopra). Gli aruspici accumulavano anche volentieri le minacce per aumentare
l’efficacia dei mezzi di espiazione (Cic. div. II 24). Ma casi come Appian.
bell. civ. IV 4 dimostrano che c’erano anche fulmina inevitabilia (Sen.
op. cit. II 50, 2 secondo Attalo), le cui annunciazioni non si potevano
prevenire attraverso alcuna espiazione; cfr. fulmina finita sopra §
16, 5.
A. La sepoltura del fulmine. Il primo compito degli aruspici
era quello di eliminare le tracce del fulmine: essi pulivano il luogo e
sotterravano quello che il fulmine aveva ucciso o frantumato (Lucan. bell.
civ. I 606. Sen. de clem. l 7, l; secondo Schol. Pers. II 26 anche fulmini
di pietra). Poi recintavano il posto (Lucan. VIII 863. Apoll. Sid. carm.
IX 193 seg.) e lo consacravano al dio al quale essi offrivano (Lucan. I
608 seg. Pers. II 26) anche un sacrificio espiatorio (bidens). La fossa
del fulmine portava l’iscrizione fulgur conditum (CIL XII 1047. VI 30871.
X 6990; fulgus condit. X 1603; fulgur divom conditum XII 3048 Nimes; fulgur
divom XII 3047-3049. VII 561. V 6778) o sacrum publicum fulguris XI 1024
(Brescello). Nella letteratura esso si chiama invece bidental, secondo
la spiegazione degli antichi da ovis bidens (secondo C. Lindsten Eranos
1908, 21 bidens = bis edens ‘rimasticante’), probabilmente perché
la lancia a due punte bidens era una volta il simbolo del fulmine (Usener
Rh. Mus. 1905, 22. Thulin E.D. I 96).
Anche i Pontifices seppellivano il fulmine. La tomba
si chiamava però puteal (Fest. 333), poiché essa doveva essere
scoperta come il tempio del dio Fidio, il dio romano del fulmine, e perciò
era collegata all’aria attraverso un’apertura simile a un pozzo (una fossa
per fulmini simile con l’iscrizione [f]ulgur dium è stata trovata
a Roma: un sarcofago di pietra sul quale si innalzano quattro muri formando
una specie di un pozzo, Thulin E.D. I 102). E invece del sacrificio cruento
i Pontifices offrivano un sacrificio espiatorio di cipolle, peli e alici
(Plut. Numa 15, 14. Ovid. fast. III 285 segg. 333-345. Arnob. V l). L’ucciso
dal fulmine veniva sepolto sul luogo colpito dal fulmine senza le cerimonie
usuali (Plin. n. h. II 145. Fest. 178 v. occisum. Quintil. decl. 274).
Secondo Plutarco questo rito pontificale sarebbe esistito ancora alla sua
epoca. Ma all’incirca dall’epoca degli Antonini è testimoniato da
iscrizioni un sacerdozio particolare: sacerdotes bidentales (v. Bidental
sopra vol. III p. 430), che in epoca più tarda provvedevano al seppellimento
del fulmine.
B. Per l’espiazione degli alberi colpiti dal fulmine
c’erano norme speciali, attraverso le quali gli aruspici potevano presentarsi
come insegnanti sacerdotali del popolo nell’arte del giardinaggio: si potevano
innestare solo determinati tipi di alberi perché altrimenti l’espiazione
dopo un fulmine sarebbe stata resa più difficoltosa e anche il numero
degli innesti venne limitato con riguardo alle espiazioni (Varro r. r.
I 40, 5. Plin. n. h. XV 57. XVII 124. Thulin E.D. I 107). Gli alberi colpiti
erano arbores infelices o religiosae, paragonabili al fulmine (Plin. n.
h. XIV 119 prolibare diis nefastum habetur vina - praeter inputatae - vitis
fulmine tactae. XVI 24). Nel boschetto sacro dei Fratres Arvales, dove
non potevano stare alberi sconsacrati, furono eliminati e bruciati tutti
gli alberi colpiti, piantati dei nuovi al loro posto e per espiazione macellati
agli dei del boschetto due animali ciascuno (arietes verveces oves) (Acta
fratr. Arval. Henzen pag. 213 seg. 224 d.C.). Il cruento sacrificio espiatorio
indica un rito etrusco. Anche qui sentiamo di sacerdoti speciali, gli strufertarii,
che offrivano agli alberi colpiti dal fulmine incruenti sacrifici di focacce
(Fest. 294; ep. 295 qui quaedam sacrificia ad arbores fulgoritas faciebant;
ep. 85 ferctum genus libi . . . strue altero genere libi. Cfr. Acta fratr.
Arval. Henzen p. 134 struibus et fertis).
C. Espiazioni statali. Il senato romano decise espiazioni
dei publica fulgura o ex decreto pontificum o ex responso haruspicum o
iussu decemvirum (eventualmente li interrogavano tutti e tre, come in Liv.
XXVII 37, 2, o due di loro, come in Liv. XLII 20 l). Dopo il cosiddetto
decreto di Numa l’espiazione fu affidata ai Pontifices (Liv. I 20 7 pontifex
edoceret quae prodigia fulminibus aliove quo uisu missa susciperentur atque
curarentur). Ma secondo i resoconti sui prodigi si fa ricorso a loro principalmente
per fulmini al di fuori di Roma (Thulin E.D. I 114) e dopo il 176 a.C.
non è più testimoniato nessun caso. L’iscrizione di Interamna
CIL XI 4172 Iovi Fulmini Fulguri Tonanti Rustius L. f. (C)aepio pont. ex
s. c. dedicavit non può essere determinata temporalmente. Per fulmini
che erano entrati in templa o loca publica di Roma, venivano interrogati
gli aruspici o i decemviri e dopo il l67 a.C. (Liv. XL V 16) è testimoniato
solo una volta che i decemviri siano stati ascoltati su un prodigio causato
dal fulmine, Cass. Dio XXXlX 15, l 57 a.C., allorchè entrarono in
gioco anche motivi politici. Altrimenti sempre gli aruspici fino all’epoca
di Costantino (v. § 4 B).
§ 19. Lo scongiuro dei fulmini. Wissowa Rel. 106
afferma a ragione che lo scongiuro dei fulmini come arte sacerdotale è
proprio della superstizione etrusca ma fin dall’inizio estraneo ai romani.
Con sacrifici e preghiere i sacerdoti etruschi riuscivano a prevenire i
fulmini o a incantarli (Plin. n. h. II 140 exstat annalium memoria sacris
quibusdam et precationibus vel cogi fulmina vel impetrari). Quest’arte
che ancor oggi sopravvive in Italia (Bellocci, La grandine nell’ Umbria,
Perugia 1903, 31 seg. teschi d’asino e preghiere), è descritta più
dettagliatamente da Colum. X 341 et tempestatem Tuscis avertere sacris.
344 hinc caput Arcadici nudum cute fertur aselli \ Tyrrenus fuisse Tages
in limite ruris, \ utque Iovis magni prohiberet fulmina Tarchon | saepe
suas sedes praecinxit vitibus albis. Le viti rosse erano alberi felici
che non venivano mai colpiti dai fulmini, come l’alloro Plin. n. h. II
146. XV 153 (il contrario haliphloeos XVI 24). Anche Ovidio fast. V 301
menziona i sacrifici come mezzi efficaci. Sulle parole presumibilmente
etrusche arse verse come scongiuro del fuoco sulle pareti Fest. ep. 18.
Plin. n. h. XXVIII 20 v. Skutsch sopra vol. VI pag. 776.
Due tipi di fulmini incantati ci sono tramandati da Cecina
Sen. nat. quaest. II 49, 3: l) hospitalia, quando con sacrifici si invita
il dio a scendere come ospite e consigliere (cfr. Plut. Numa 15. Ovid.
fast III 285 segg. Liv. 131. Plin. XXVIII 14); 2) auxiliaria, quando lo
si supplica di venire in aiuto con fulmini. Di questo fulmine della grigia
preistoria ci racconta Plin. n. h. II 140: vetus fama Etruriae est impetratum,
Volsinios urbem depopulatis agris subeunte monstro, quod vocavere oltam,
evocatum a Porsina suo rege. Un altro l’incontriamo all’inizio del Medioevo,
Zosim. V 41; v. sopra § 4 B fin. Ma qui si dice ευχή και κατά τά πάτρια θεραπεία, dunque come in Plinio sacris et precationibus.
Ma la forma più frequente dell’incantesimo del
fulmine era certamente quella legata all’incantesimo della pioggia: Usener
Rh. Mus. 1905, 19, l ha esattamente spiegato l’andare in giro con il lapis
manalis come un tentativo di imitare il rimbombare del tuono e quindi di
provocare temporali. E la testimonianza di Fulgenzio che ascrive questo
rito alla dottrina etrusca ha tutte le stimmate della verità (v.
§ 25)
II. Libri haruspicini.
§ 20. La dottrina dell’esame dei visceri che si
fa risalire a Tagete era il più originario ed essenziale elemento
della disciplina etrusca. Haruspex è il titolo del sacerdote anche
se tratta fulgura o ostenta, e haruspicina designa spesso tutta la disciplina
(Cic. div I 91. II 28. 37 e più). Ma in senso stretto l’haruspex
è l’extispex (Cic. div. II 109 haruspices et fulguratores et interpretes
ostentorum), e i libri dell’esame dei visceri si chiamano libri haruspicini
(div. I 72). In quest’arte gli etruschi erano maestri riconosciuti. (Cic.
div. I 73 extorum cognitioni se maxime dediderunt. Cfr. L’etimologia di
Varrone Isid. XIV 4, 22 Tuscia...από του θΰσαι. Essi sapevano interpretare
la lingua che gli dei parlavano attraverso determinati segni dei visceri
(Tib. II 5, 13 lubrica signavit cum deus exta notis) e così fare
profezie, mentre i romani in ogni azione indagavano solo se gli exta erano
in ordine o no per sapere se la divinità approvava (litare) o no
(non perlitatum est), cioè essi facevano al dio una domanda alla
quale egli doveva rispondere con sì o no (Cic. div. II 32 quando
ea nos extis exquirimus? aut quando aliquid eiusmodi ab haruspice inspectis
extis audivimus?). Il termine etrusco è perciò consulere
exta, quello romano inspicere exta (Serv. Aen. IV 64 aruspices enim exta
consulere dicuntur, cum inspiciunt). Come la legum dictio, il porre domande,
era molto importante negli auspicia impetrativa romani, così anche
nella visione dei sacrifici i romani dovevano decidere in anticipo da quale
dio desideravano ricevere risposta e potevano interrogare con un sacrificio
animale solo questo dio (Liv. XLI 14, 7: immolantibus Iovi singulis bubus.
Cic. div. II 38 cum pluribus diis immolatur, qui tandem evenit, ut litetur
aliis, aliis non litetur? . . . ut Apollinis exta bona sint, Dianae non
bona. Liv XLI 15, 4 ceteris dis perlitatum ferunt, Saluti Petilium perlitasse
negant). Invece il fegato di bronzo di Piacenza (v. § 14) con le sue
regioni e i nomi degli dei ci ha insegnato che gli etruschi hanno assegnato
agli dei determinate sedi sia sul fegato, sia nel cielo. Essi potevano
dunque decidere secondo il posto di ogni segno quale dio parlava loro dai
visceri (Plin. n. h. XI 195 haruspices fel Neptuno et humoris potentiae
dicavere).
§ 21. Hostiae animales e consultatoriae. Nella
dottrina dei sacrifici etrusca si distinguevano hostiae animales e consultatoriae
(Serv. Aen. IV 56 duo enim genera hostiarum sunt: unum in quo voluntas
dei per exta exquiritur; alterum in quo sola anima deo sacratur: unde etiam
aruspices animales hostias appellant = Macrob. Sat. III 5, l; ibidem 5
vel animalibus vel consultatoriis. Serv. Aen. III 231 animales hostiae,
quae tantum immolantur; V 483 meliorem: aptiorem, nam animalem hostiam
dat; Georg. IV 539 ut tantum occidantur; Aen. IV 64 aruspices exta consulere
dicuntur). Tutta l’indagine seguente si occuperà delle consultatoriae.
Gli animales, la cui vita e anima sono state consacrate agli dei senza
indagare le exta, ci conducono agli insegnamenti mistici che la religione
etrusca deve alla dottrina orfico-pitagorea e aveva riportato nei libri
acherontici: con il sacrificio di determinati animali, offerti a certi
dei, le anime umane potevano giungere all’immortalità (Arnob. a.
n. II 62 Etruria libris in Acheronticis pollicetur, certorum animalium
sanguine numinibus certis dato divinas animas fieri et ab legibus mortalitatis
educi. Cfr. Serv. Aen. III 168 Labeo in libris qui appellantur de diis
animalibus - - ait esse quaedam sacra, quibus animae humanae vertantur
in deos, qui appellantur animales, quod de animis fiant. hi autem sunt
dii penates et viales). Queste anime sono quelle che sono giunte all’ultima
meta della metempsicosi, della deificazione (Furtwängler Gemmen III
259). Su gemme etrusche compare spesso Hermes - Turm come il dio che porta
su le anime dagli inferi e le sveglia a nuova vita (Furtwängler Gemmen
III 203. 254 segg.). Marziano Capella II 142 fa ringraziare la Filologia,
resa immortale da una pozione, di non aver dovuto prima scendere agli inferi
per essere magicamente tirata su con tali sacrifici e diventare immortale
(quod nec Vedium cum uxore conspexerit, sicut suadebat Etruria; v. Müller
Etrusk. II 94, 42).
Due tipi di questi sacra Acheruntia o Proserpinae distingue
Servio Aen VI 149 unun necromantiae … aliud sciomantiae …, in necromantia
… sanguis est necessarius, in sciomantia vero, quia umbrae tantum est evocatio,
sufficit solus interitus. Di Neciomanzia etrusca parlano Tertulliano apol.
13, Clemens Alex. protr. 11 P.
§ 22. Probatio e Consultatio. Per l’esame esterno
degli animali da sacrificio non è tramandato niente di peculiarmente
etrusco. Perché le norme che l’animale dovesse essere sano (Serv.
Georg. III 491 colligi nisi ex sana victima futura non possunt) e non dovesse
fare resistenza davanti all’altare (Serv. Georg. II 395; cfr. Aen. IX 694.
Macrob. III 5, 8), sono regole generali per i sacrifici. Per l’interrogazione
degli exta erano presi in considerazione, per quanto se ne sa dai testi,
solo pecore e bovini (vitelli). Di questi tuttavia è la pecora la
vera e propria hostia consultatoria. Il bronzo di Piacenza, così
come il fegato di alabastro di Volterra (v. Thulin Religionsgesch. Versuche
u. Vorarb. II 4 tav. III 2), appartengono a pecore (L. Stieda Anatomisch-archäol.
Stud., Wiesbaden 1901, 47), come anche i fegati babilonesi conservati.
Originariamente gli aruspici indagavano, come i Caldei,
solo il fegato e la cistifellea. Plinio attesta che essi hanno cominciato
solo nel 274 a.C. a esaminare il cuore (n. h. XI 186). I polmoni li menziona
solo Cicerone (div. I 85). L’esame del fegato è però così
predominante che exta è sempre da riferire al fegato se non vi sono
più precise indicazioni (p. es. Plin. n. h. XI 189 caput extorum
= caput iecoris e più )
§ 23. Il fegato. Un fegato ammalato, avvizzito annuncia
sfortuna (Lucan. I 618 terruit ipse color vatem. . . . tabe iecur madidum.
Sen. Oed. 357 tabidum), una fortuna straordinariamente grande e crescita
di potere (Obseq. 69 Caesari . . . immolanti duplicia exta apparuerunt.
Secutae sunt eum res prosperae. Plin. n. h. XI 190 Augusto . . . iocinera
replicata intrinsecus ab ima fibra reperta sunt, responsumque duplicaturum
intra annum imperium = Sueton. Aug. 95 ita enim ob nimiam magnitudinem
se replicuerant exta, ut duplicia viderentur = Cass. Dio XLV 35 διττά ήπατα.
Raddoppiamento del patrimonio Plin. ep. II 20, 13). Era egualmente favorevole
una forte pelle intorno al fegato (Ammian. Marc. XXII l, l operimento duplici),
sfavorevole una sottile (Sen. Oed. 361 tenuis membrana).
Nell’esame etrusco del fegato si distinguevano tre parti
del fegato, cioè caput iocineris, pars familiaris e pars hostilis
sive inimica.
1. Caput iocineris, il processus pyramidalis o caudatus
(prima detto lobus Spiegelii) era il principale oggetto d’indagine (Cic.
div. II 32 caput iecoris ex omni parte diligentissime considerant). Tanto
nel fegato di bronzo etrusco quanto su quello babilonese di terracotta
(Brit. Mus Bu. 89-4-26, 238; v. Thulin E.D. II tav. II) c’è una
piramide a tre lati che riproduce stilizzata la forma naturale (la punta
nello stato naturale è piegata verso il basso). Ma siccome varia
molto, ciò è tanto più fruttuoso per la mantica (Plin.
n. h. XI 189 caput extorum - magnae varietatis). Tutto quello che globalmente
vale per il fegato, lo troviamo applicato al caput. Se è particolarmente
grosso, significa fortuna (Liv. XXVII 26, 13 Marcello 208 a.C. prima hostia
caesa iecur sine capite inventum, in secunda … auctum etiam visum in capite;
nec id sane haruspici placuisse, quod secundum trunca et turpia exta nimis
laeta apparuissent. Plut. Marc. 29 τε κεφαλή μέγεθος υπερφυές ανέσχε.
Plin. n. h. XI 189 geminum caput. Val. Max. I 6, 9 caput iocineris duplex),
la sua mancanza o una forma avvizzita annuncia grandissima sfortuna, soprattutto
morte (Cic. div. II 32 nihil (haruspices) putant accidere potuisse tristius).
Nessun segno appare più spesso di questo caput defuit o non inventum
est (Liv. XXVII 26, 13. XXX 2,13. XLI 14, 7. 15, 3. Obseq. 17. 35. 47.
52. 55. Plin. n. h. XI 189). Una fessura in esso significa rivolgimenti:
in Ovid. met. XV 794 quelli delle guerre civili dopo la morte di Cesare,
Liv. VIII 9, l (v. sotto) la morte di Decio. Ma allo sfortunato questo
segno promette un cambiamento in meglio (Plin. n. h. XI 190 caput extorum
tristis ostenti caesum quoque est praeterquam in sollicitudine ac metu.
tunc enim peremit curas). Due teste indicano discordia (Lucan. I 626 seg.).
Seneca Oed. 359-361 unisce parecchi segni infausti: capita bina . . . utrumque
caesum tenuis abscondit caput membrana. Invece una formazione simile a
una corona sul caput era un segno di vittoria (Plut. Silla 27, 6. Agustino
c. d. II 24). Cfr. Jastrow Relig. II 306 ‘sopra - bene, sotto - male’.
Come il fegato, anche il caput aveva una pars familiaris
e una pars hostilis, Liv. VIII 9, l Decio caput iocineris a familiari parte
caesum haruspex dicitur ostendisse: alioqui acceptam dis hostiam esse,
cioè il segno infausto si riferiva solo a Decio, il suo esercito
vinse.
Nella ieroscopia greca il λοβός contraddistingue specialmente
il caput iecoris, e ήπαρ άλοβον o άλοβα è l’espressione per
caput deest. Da Nic. Ther. 560 ήπατος ακρότατον κέρσαι λοβόν ός τε τραπέζης εκφύεται risulta che tutto il lobus caudatus con i due rilievi, il processus
papillaris e pyramidalis, si chiamava τραπέζα. Sul fegato babilonese menzionato
esso è indicato da una posizione più alta. L’appendice piramidale
stessa, che ha un ruolo preminente nei testi profetici, si chiama ‘corno
della mano’ = ‘dito' (Schu-Si = ubânu), ma anche ‘testa del fegato’
(Sag-Ur = rêsch kabitti), tutto il lobo coi due rilievi ‘centro del
fegato’ (Jastrow Die Relig. Babyloniens II 230 seg.). Tuttavia è
importante solo l’appendice piramidale, l’unica che viene considerata nei
testi romani, sebbene sul bronzo sia presente anche il mastoide.
Pars familiaris e hostilis. Nei dettagliati testi dell’esame
caldeo del fegato domina continuamente il principio ‘a destra = fausto,
a sinistra = infausto’ e ‘a destra riferito al richiedente, a sinistra
al nemico’ (Jastrow Die Relig. Babyloniens II 238. 244 e più). Alla
domanda di Cicerone div. II 28 quo modo est conlatum inter ipsos (haruspices),
quae pars inimica, quae pars familiaris esset? la risposta giusta è:
essi l’hanno imparato da altri. Un segno infausto sulla pars familiaris
è infausto per il richiedente (Liv. VIII 9, 1; v. sopra). Un buon
segno sulla pars hostilis è favorevole per il nemico, quindi pericoloso
per il richiedente (Sen. Oed. 362 hostile valido robore insurgit latus
septemque venas tendit. Lucan. I 621 venasque minaces hostili de parte
videt, cioè la pars hostilis era fortemente sviluppata).
Che cella sia stato il terminus technicus degli aruspici
per pars (hostilis o familiaris), lo dice lo Scoliaste Comm. Bern. a Lucan.
I 621 (v. sopra): diversae venae sunt, quas aruspices cellas dicunt, hostium,
amicorum et alia huiusmodi. Cum ergo aspiciunt iocinera, intelligunt quae
cella nec eat (iaceat corr. Usener con B), quae pars saliat (v. Blecher
De extispicio 173). Invece delle parole senza senso diversae venae sunt
Otto DLZ 1909, 1042 raccomanda la lettura Bs venas in duas partes dividebat;
poi però devono essere cancellate le parole et alia huiusmodi.
La divisione naturale in un lobo destro e uno sinistro
è fatta da entrambi i lati nel bronzo di Piacenza (v. Körte
Röm. Mitt. XX 357). Ci si chiede solo se queste parti siano identiche
alle partes familiaris e hostilis. Körte lo crede; ma mi pare che
egli stesso abbia fornito il più forte argomento contrario nel momento
in cui ha stabilito che quella linea divisoria è allo stesso tempo
la linea est ovest (op. cit. 360 seg.). Da ciò consegue infatti,
poiché le 16 regioni del fegato sono senza dubbio in relazione con
le 16 regioni del cielo, che sul fegato come in cielo il lato occidentale
è il più infausto, e quindi la parte superiore dei due lobi
è la pars hostilis, il lato orientale quello fausto: quindi la parte
inferiore dei lobi pars familiaris. I nomi degli dei del bronzo che noi
possiamo interpretare si accordano solo con questa supposizione (Thulin
E.D. II 28). Questo risultato colpisce ora tanto meno in quanto Jastrow
(Die Relig. Babyloniens II 353, 4) ha accertato che nell’esame caldeo del
fegato le disposizione ‘a destra’ e ‘a sinistra’ non si riferiscono al
lobo destro e sinistro, ma alla parte superiore e inferiore: il sacerdote
teneva rivolto verso di sé il lobo destro quando osservava il fegato.
§ 24. Fissa o strisce sulla superficie del fegato.
Nell’aruspicina era molto importante l’ossevazione delle fissa (Cic. nat.
deor. III 14 quis invenit fissum iecoris?; div. I 16 quid fissum in extis,
quid fibra valeat accipio. I 118 singulis iecorum fissis. Fronto
p. 137 Naber sicut in extis diffis(s)a plerumque minima et tenuissima maximas
significant prosperitates). Secondo la loro comparsa sulla pars familiaris
o hostilis venivano chiamate fissum familiare o vitale (minacciose per
la vita): Cic. div. II 28 ... quod fissum periculum, quod commodum aliquod
ostenderet; 32 fissum familiare et vitale tractant. Un fissum portava guadagno,
un altro perdite (Cic. div. II 34. 32).
Tali strisce o piccole fessure compaiono molto frequentemente
soprattutto sui fegati di pecora. Nei testi caldei vengono prese in considerazione
tanto spesso che Boissier Choix de Textes 120 può dire a ragione:
‘Les haruspices assyriens sont des ‘fissiculatores'’. A seconda del numero
e del luogo di comparsa davano segni fausti o infausti.
§ 25. Fibra. Fibra, più spesso fibrae, è
la parola dei poeti per exta o iecur. Come terminus technicus significherebbe
la punta (del fegato) secondo Serv. Georg. I 120 iocineris extremae partes
fibrae a nonnullis appellantur (cfr. Cic. div. I 16 quid fibra valeat,
accipio, Plin. n. h. XI 190 ab ima fibra. Lucan. I 622 fibra pulmonis latet);
secondo un’altra versione Serv. op. cit. fibrae per iecur, id est venae
quaedam et nervi. Se le fibrae erano rosse, minacciavano siccità:
Fulgenzio germ. ant. Helm p. 112, II Labeo, qui disciplinas Etruscas Tagetis
et Bacitidis quindecim voluminibus explanavit, ita ait: ‚Fibrae iecoris
sandaracei coloris dum fuerint, manales tunc verrere opus est petras'.
Esempi analoghi dei monumenti caldei mi hanno spinto a ritenere originale
questa citazione che assegna il lapis manalis alla disciplina etrusca (v.
Thulin E.D. II 43 seg.).
§ 26. La cistifellea era consacrata soprattutto
a Nettuno e a Marte. Poiché Plinio dice n. h. XI 195 Taurorum felle
aureus ducitur color. haruspices id Neptuno et umoris potentiae dicavere
geminumque fuit divo Augusto, quo die apud Actium vicit. E sulla cistifellea
del fegato di bronzo è inciso completamente il nome maris, di neθuns
solo la lettera iniziale (Thulin E.D. II 21; v. ibidem e 45 la concordanza
con il concetto caldeo. Cfr. Jastrow Die Relig. Babyloniens II 305 ‘un
incavo sulla testa del dotto cistico significa acquazzone’). Una vescica
molto grossa (geminum) annunciava poi una vittoria navale. Un fel nigrum
era invece un cattivo segno (Sen. Oed. 358). Da Cic. div. II 32 ab aqua
aut ab igni pericula monent (haruspices) sembra risultare che un fel rubrum
profetizzava pericolo d’incendio.
§ 27. Cuore e polmoni. Quando si cominciò
a osservare questi organi, si applicarono su di essi i principi dell’esame
del fegato. La mancanza del cuore era segno di morte (Cic. div. I 119 Cesare
e Spurinna), anche un cuore ammalato era un cattivo presagio (Sen. Oed.
356 cor marcet aegrum. Lucan. l 624 cor iacet). Invece una formazione di
grasso intorno alla punta annunciava fortuna (Plin. n. h. XI 186 in corde
summo pinguitudo quaedam est laetis extis); v. sopra § 23, 1.
Una fessura nel polmone (cfr. caput caesum) costringe
a una proroga (Cic. div. I 85 quid enim habet haruspex cur pulmo incisus
etiam in bonis extis dirimat tempus et proferat diem?). Un fissum vitale
(v. § 24) lo descrive Lucano I 622 pulmonis anheli | fibra latet parvusque
secat vitalia limes. Fibra latet corrisponde al caput defuit.
§ 28. L’estispicina e la dottrina dei fulmini. La
corrispondenza fra queste due parti della disciplina la vediamo già
nelle 16 regioni del fegato di bronzo che corrispondono alle 16 regioni
del cielo. Anche la terminologia è parzialmente simile. Con i
fulgura § 16, 3 si confrontino i muta exta (Fest. Paul. 156 ex quibus
nil divinationis animadvertebant), con i fulgura auxiliaria gli exta adiutoria
(Fest. 157 ab in(cendio ut caveamus aut) a veneno . . . finium deminutionem);
ai fulgura regalia corrispondono i regalia exta (Fest. 10 289 quae potentibus
insperatum honorem pollicentur, privatis et humilioribus hereditates, filio
familiae dominationem). La doppia interpretazione contenuta nell’ultimo
esempio, la prima per i governanti e lo stato, la seconda per i privati
e gente di bassa estrazione testimonia una concordanza evidente fra la
divinazione etrusca e quella caldea (s. Jastrow II 246 e nota l. 258).
Particolare attenzione meritano tre risposte molto simili
che gli aruspici davano ai consoli quando questi sacrificavano per conto
del senato prima dell’inizio di una nuova guerra (hostiis maioribus) chiedendone
un esito felice: Liv. XXXI 5, 7 (200 a.C. contro Filippo) haruspices respondere
laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum portendi;
XXXV 1, 3 (191 contro Antioco) . . terminos pop. Rom. propagari: victoriam
ac triumphum ostendi. XLII 30, 9 (171 contro Perseo). Gli aruspici sapevano
che il senato non accettava risposte sfavorevoli (Liv. XLI 15, 4 senatus
. . .usque ad litationem sacrificari iussit) e sapevano soddisfare il suo
desiderio. Come qui viene comunicata solo l’interpretazione, non i segni
dai quali essa viene letta, così anche in Liv. XXVII 16, 15. Tac.
hist. I 27. Suet. Galba 19: gli aruspici mettono in guardia da un agguato.
Sallust. bell. Iug. 63, l magna atque mirabilia.
III. Libri rituales.
§ 29 I libri rituali, la parte più estesa
della disciplina, contenevano norme sulla costruzione della città
e dei templi (Fest. 285), la divisione della terra (limitatio Agrim. p.
27. 166. 303), la costituzione cittadina e il diritto (Fest. 285. Serv.
Aen. I 2); inoltre i libri del destino e quelli della morte (libri fatales,
Acheruntici Cens. 17, 5. 11, 6. 14, 6. Serv. Aen. VIII 398. III 168. Arnob.
II 62) e gli ostentaria o la dottrina dell’interpretazione ed espiazione
degli ostenta.
§ 30. Il rito di fondazione della città.
L’occupazione etrusca del paese chiamato dal nome di questo popolo è
contraddistinta dalla costruzione di grandi e forti città, partendo
dalle quali la minoranza dei conquistatori dominò il paese. Gli
scavi a Marzabotto (Monum. Antichi d. Lincei I) dell’impianto etrusco della
città del VI – V secolo ci hanno insegnato che i romani devono agli
etruschi lo schema delle loro colonie e che Roma stessa è probabilmente
una fondazione etrusca (Schulze Eigennam. 571 segg. 582).
Nella letteratura romana viene però ricordato
soltanto che i romani hanno preso dai loro vicini settentrionali la cerimonia
di fondazione, il ritus etruscus. Con un aratro, davanti al quale erano
attaccati un toro a destra e una vacca a sinistra e il cui dente era di
metallo, il fondatore segnò la circonferenza della città.
Le zolle, che dovevano cadere tutte all’interno, e il solco rappresentavano
vallo e fossato al cui posto sebentrarono poi le mura. Nel posto dove in
seguito doveva esserci una porta, si alzò l’aratro per lasciarlo
profano, mentre le mura erano sacre perché erette su uno spazio
consacrato (pomerium) (le testimonianze Thulin E.D. III 5-8).
§ 31. Pomerium era la striscia di terreno consacrata,
contrassegnata da ambedue le parti da cippi, sulla quale stavano le mura
e che rappresentava contemporaneamente il confine sacro della città
(Liv. l 44, 3 locus quem in condendis urbibus quondam Etrusci, qua murum
ducturi erant, certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut neque
interiore parte aedificia moenibus continuarentur, quae nunc vulgo etiam
coniungunt, et extrinsecus puri aliquid ab humano cultu pateret soli).
Per considerazioni difensive, quindi, si interdiva all’uso privato originariamente
da entrambe le parti intorno alle mura uno spazio libero; l’interno venne
però poco a poco coltivato fino alle mura e la stessa parola latina
pomerium (pos-moiriom) si riferisce solo alla parte esterna dietro le mura
(Messala augure in Gell. n. a. XIII 14, l . . . locus intra agrum effatum
[v. Wissowa Relig. 456] per totius urbis circuitum pone muros regionibus
certis determinatus, qui facit finem urbani auspicii. Varrone de l. l.
V 143 post ea [sc. fossam et murum] qui fiebat orbis ‚urbis' principium,
qui quod erat post murum postmoerium dictum. Fest. 249 Catone . . . quasi
promerium. Plutarco Romolo 11 ... πωμήριον
οίον όπισθεν
τείχους. Tac. ann.
12, 24).
L’importanza sacrale di questo pomerio, preso in prestito
dagli etruschi come confine degli auspici cittadini, esisteva nella dottrina
augurale romana anche dopo la scomparsa della relazione con le mura così
che c’erano mura senza pomerium e pomerium senza mura (cfr. Valeton Mnemos.
XXV 144. Cic. nat. deor. III 94).
§ 32. Mundus. Secondo la descrizione di Plutarco
Rom. 11 (βόθρος γάρ ωρύγη περί τό νύν Κομίτιον κυκλοτερής απαρχαί τε πάντων όσοιςςνόμω μέν ώς καλοις εχρώντο φύσει δ’ώς αναγκαίοις απετέθησαν ενταυθα…) e nei fast. di Ovidio IV 819 segg. la fondazione della città
cominciò con la creazione di una fossa nella quale si buttarono
le primizie dei prodotti agricoli e terra della patria. Questo atto, preceduto
dai solchi tracciati, rappresentò il primo sacrificio che si offriva
per ottenere il favore delle divinità della terra e la fossa si
chiamò mundus (Plut. op. cit. καλουσι δέ τόν βόθρον τουτον, ώ καί τόν όλυμπον ονόματι μούνδον), come tutti i luoghi sacrificali per le divinità
della terra o degli inferi. Sul Palatino si venerò fin in epoca
tarda (Richter Topogr. 148) sotto il nome di Roma quadrata il monumento
della prima fondazione di Roma, nel quale si conservava tutto (aratro,
giogo ecc.) ciò che era stato usato nell’atto della fondazione boni
ominis causa (Fest. 258 v. quadrata Roma). E’ possibile che questo monumento
sia stato eretto sulla fossa riempita di terra (Plut. v. sopra Ovidio fast.
IV 823 fossa repletur humo plenaeque imponitur ara). Però poi Plutarco
sposta erroneamente il suo mundus al comitium. I tentativi fatti in base
alla sua testimonianza di riconoscere nella ‘fossa di Romolo’ il monumento
della seconda fondazione di Roma, cioè della città delle
quattro regioni, sono campati in aria. Il mundus descritto da Catone (Fest.
154 v. mundus), aperto tre giorni all’anno, la sede dei Di Manes (= aedes
Orci Heliogab. l, 6?), che in generale si equipara arbitrariamente a Roma
quadrata a causa di Plutarco, non ha nulla a che fare con la fossa riempita
di Plutarco o con il rito di fondazione. Su un pozzo vicino a Bolsena,
profondo 14,5 m, inferiormente a volta e corrispondente alla descrizione
catoniana del mundus v. Mon. ant. XVI 1906, 169-240.
§ 33. Costruzione e consacrazione del tempio. I
libri rituali indicavano secondo Festo 285: quo ritu . . . arae aedes sacrentur.
Questo rito è menzionato solo da Tacito hist. IV 53 là dove
egli descrive la ricostruzione del tempio capitolino nell’anno 70. Secondo
le prescrizioni di aruspici etruschi furono prima gettati in acqua i resti
dell’antico tempio e preparate le fondamenta per il nuovo sul posto del
vecchio, poi vennero gettati dei sacrifici nelle fondamenta nelle quali
fu poi solennemente calata la prima pietra (poiché questo gettar
dentro il sacrificio ci è ben noto dai testi caldei - Perrot-Chipiez
II 332 -, non vedo motivo di dubitare che anche il rito orientale della
posa della prima pietra sia stato ripreso dagli etruschi).
Le prescrizioni degli aruspici si estesero però
anche alla costruzione e alla forma del tempio. Pare che i Tarquini abbiano
consultato indovini etruschi per la costruzione del santuario capitolino
(Liv. I 55, l), e i resti della costruzione chiariscono ancora l’influsso
etrusco (Wissowa Relig. 36). Nella ricostruzione ebbe valore la norma nolle
deos mutari veterem formam (Tac. op. cit.) che del resto compare anche
in testi caldei (Jastrow Die Relig. Babyloniens 11 144). Alla costruzione
del tempio si riferiscono le notizie arrivateci dalla disciplina etrusca.
Secondo Serv. Aen. I 422 in ogni città fondata ritu erano necessari
tre templi, cioè quelli della triade capitolina Giove-Tina, Minerva-Menrva,
Giunone-Uni, senza dubbio corrispondenti all’originaria suddivisione della
città in tre tribù (v. sotto § 35). Dei tre templi se
ne è fatto poi uno a tre celle (Roma, Falerii, Signia, Felsina).
Il tempio toscano è descritto da Vitruvio IV 7 segg., e su di esso
v. Th. Wiegand La Glyptothèque Ny Carlsberg, Testi II l-32. I resti
del tempio arrivati fino a noi mostrano un orientamento variabile
verso sud (Thulin E.D. III 45).
Secondo Vitruvio I 7, l i libri etruschi prescrivevano
inoltre che i templi di Venere, di Marte e di Vulcano dovessero trovarsi
fuori dalle mura della città per tener lontano dalla stessa avidità
di piaceri, liti interne e incendi.
§ 34. Limitazione. Secondo Varrone i romani hanno
imparato dagli etruschi l’arte della limitazione (Agrim. 27. Frontino limitum
prima origo sicut Varro descripsit, a disciplina Etrusca; quod aruspices
orbem terrarum in duas partes diviserunt, dextram appellaverunt (quae)
septentrioni subiaceret, sinistram quae a meridiano terrae esse(t, ab Oriente)
ad occasum, quod eo sol et luna spectaret . . .). Un frammento della dottrina
etrusca che si riferisce alla sacralità del confine è conservato
in traduzione latina nella raccolta dei Gromatici: la cosiddetta profezia
di Vegoia (Agrim. 350 .. . cum autem Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit,
constituit iussitque metiri campos signarique agros ecc.). La parola gruma
stessa si può far derivare dal greco γνώμονα solo secondo analogie
etrusche (Schulze S.-Ber. Akad. Berlin 6. Juli 1905, 709), dunque è
sicuramente arrivata ai romani attraverso una mediazione etrusca. E la
misura acnua (120 piedi quadrati) che fa concorrenza al latino versus (100
piedi quadrati ) (Varrone r. r. I 10. Agrim. 30, 9), sembra essere una
parola etrusca. Nell’arte etrusca della limitazione domina l’orientamento
verso ovest (Agrim. 27; v. sopra): la linea iniziale era la linea d’ombra
verso ovest formata dal sole sorgente. V. inoltre l’articolo Limitatio.
§ 35. La pianta della città. In una città
fondata etrusco ritu dovevano esserci tre porte, tre strade e tre templi
(Serv. Aen. I 422). Alla città palatina fondata secondo questo rito
Varrone de l. l. V 164 attribuisce tre porte. Questo numero tre delle porte,
delle strade e dei templi presuppone una tripartizione della città
che è espressamente attestata sia per la città etrusca di
Mantova che aveva tre tribù (Serv. Aen. X 202), sia per la Roma
più antica le cui tre tribù Ramnes, Tities, Luceres hanno
nomi di gentes etrusche (Schulze Eigennam. 218. 581). Ogni tribù,
che originariamente contrassegnava una suddivisione sia locale sia gentilizia
(Varro de 1.1. V 55. Meyer Gesch. d. Altert.II 514), aveva dunque il suo
quartiere e il suo santuario. Ma l’isolamento locale delle gentes non si
resse e dai tre templi ne nacque uno a tre celle. Poiché la pianta
con tre porte è stata trovata già in un insediamento antico-italico
e preetrusco, la cittadina perfettamente rotonda su Monterado (presso Orvieto)
con ingressi verso nord, sud ed est (Mon. ant. IV 44), ciò significa
che gli etruschi non hanno portato in Italia già pronta né
quella dottrina nè la triade capitolina; per due dei di quella triade
non avevano nemmeno nomi propri ma hanno assunto quelli italici (Giunone,
Minerva = uni, menrva).
A cominciare dal VI secolo gli etruschi hanno usato però,
dove lo permetteva il terreno, la dottrina della limitazione anche per
la pianta cittadina. La colonia etrusca di Felsina scavata nel 1883 e nel
1888/9 (presso Marzabotto, a sud di Bologna, Mon. ant. I 249-422), abitata
dagli etruschi dalla fine del VI fino al passaggio dal V al IV secolo,
mostra infatti un impianto cittadino quadrangolare attraversato da cardo
(sud-nord) e decumani (est-ovest), come raccomandato dagli agrimensori
(Agrim. 180, 2 decimanus maximus et cardo a civitate ori(un)tur et per
quattuor portas in morem castrorum ut viae amplissimae limitibus diriguntur.
Haec est constituendorum limitum ratio pulcherrima). Secondo lo stesso
schema regolare era stata costruita la città etrusca di Capua nel
VI secolo (Körte Etrusker 751. Beloch Campanien 296 segg.), come pure
le città greche di questa regione (Napoli, Pozzuoli, Sorrento, Beloch
Campanien 66. 89. 128. 263) e Paestum.
Le cittadine collinari dell’Etruria, cioè la gran
massa delle città etrusche, sembrano dipendere totalmente, per quanto
ne sappiamo, dalla forma della roccia. Tuttavia la loro pianta interna
non è stata ancora studiata con esattezza.
§ 36. La costituzione cittadina. Secondo Fest. 285
i libri rituales insegnavano quomodo tribus curiae centuriae distribuantur,
exercitus constituant(ur) ordinentur ceteraque eiusmodi ad bellum ac pacem
pertinentia. La tradizione romana venera l’etrusco Servio Tullio-Mastarna
(macstrna) come creatore della costituzione e dell’ordinamento militare
romani, e i libri sacri etruschi davano secondo Festo direttive sulle istituzioni
statali che ritroviamo a Roma. Le più antiche tribù di Roma
avevano nomi etruschi (v. sopra § 35) e la parola tribus compare in
epoca antica solo nel territorio influenzato dagli etruschi (Kornemann
Klio 1905, 87, 6). – Gli otto nomi conosciuti delle curie romane sono in
parte di origine locale, in parte di origine gentilizia, come quelle dei
demi attici e delle ‘decuriae’ umbre (tekvias Tab. Iguv. IIb 1-7. Schulze
Eigenn. 543 segg.). Delle quattro gentilizie, tre sono etrusche: Velitia-veliθna,
Titia-titie, Faucia-φαυχα (Schulze 259 seg. 218. 151 a). Le curie erano
sottosezioni delle tre tribù tanto a Mantova, secondo Serv. Aen.
X 202, quanto a Roma secondo Cic. rep. II 8. – Centuria (formata per analogia
a decuria, Schulze Eigenn. 545 seg.) è originariamente, come l’antico
alto tedesco huntari (Bugge St. IV 341), una unione di 100 case coloniche,
heredia, di grandezza diseguale e nel diritto fondiario sorto sotto l’influsso
etrusco ha mantenuto il significato di 100, mentre heredium venne fissato
come misura (= 2 iugera o 4 acnuae). Cfr. Mommsen Hermes XXVII 80 seg.
sulla mutevole unità centuria. Non è certo, nonostante Festo
53, che essa abbia mai significato 100 nell’esercito. Sulla costituzione
e l’ordinamento militare etrusco rimando alla descrizione di Müller
Etr. I 335 segg. 364 segg. Martha in Daremberg - Saglio Dictionaire e Körte
articolo Etrusker, sopra vol. VI pag. 754. La cavalleria romana sembra
essere stata organizzata nel VII secolo secondo il modello di quella tuscolana:
le divinità protettrici dell’equitatus, i Castores, sono venuti
a Roma dalla città etrusca di Tuscolo (Helbig Hermes XL 101-115.
Wissowa Relig. 217 seg.).
§ 37. Il diritto. I libri rituali erano nello stesso
tempo anche il codice degli etruschi: lo ius civile si è sviluppato
dallo ius sacrum. Al diritto civico si riferiscono le parole di Festo 285
qua sanctitate muri, quo iure portae. Tagete ha punito lo spergiuro con
l’esilio del sacrilego e dei suoi discendenti (Serv. Aen, I 2 est enim
in libro qui inscribitur terrae iuris Etruriae scriptum vocibus Tage (genitivo
etrusco), eum qui genus a periuris duceret, fato extorrem et profugum esse
debere). Chi viola la sacralità del confine viene rimesso alla punizione
degli dei: morirà presto insieme a tutta la sua stirpe e i suoi
beni saranno colpiti dalla disgrazia (Agrim. 350 la massima dei Vegoia,
che finisce con le parole propterea neque fallax neque bilinguis sis. disciplinam
pone in corde tuo).
La formula di giuramento dei feziali (Liv. I 32 ... patriae
compotem me numquam siris esse) prevede la stessa pena dello spergiuro,
come quella etrusca. Il parricida veniva chiuso in un sacco, secondo un
antico decreto romano, e buttato in mare (Dig. XLVIII 9, 9), il sicarius
e il veneficus deportati su un isola secondo la Lex Cornelia (Dig. XLVIII
8, 3). Gli ermafroditi venivano rinchiusi, per ordine degli aruspici, in
una bara e gettati in mare, adulti che avevano cambiato sesso abbandonati
su un’isola deserta. Il parricida è frustato con le bacchette di
un albero infelice (Dig. XLVIII 9, 9), i prodigia vengono bruciati con
alberi infelici (Macr. Sat. III 20, 3). I criminali sono quindi trattati
come i prodigi e le pene romane sono identiche alle espiazioni etrusche.
Questi esempi bastano a chiarire sia lo sviluppo da ius sacrum a ius civile,
sia anche la dipendenza del diritto romano da quello etrusco.
§ 38. I libri del destino e della morte: libri fatales,
Acheruntici. Sui concetti di deificazione dell’anima attraverso sacrifici
adatti v. § 21. Attraverso certi riti espiatori anche l’uomo può
rimandare le decisioni del fato fino a dieci anni, lo stato fino a trenta:
la prima proroga fu accordata da Tina-Iuppiter, la seconda dalle divinità
del destino (Serv. Aen. VIII 398 sed sciendum secundum aruspicinae libros
et sacra Acheruntia, quae Tages composuisse dicitur, fata decem annis quadam
ratione differri . . . primo loco a Iove dicunt posse impetrari, post a
fatis. Sen nat. quaest. II 48, l. Plin n. h. II 139. v. sopra §
16, 5 c).
Come gli astrologi, anche gli aruspici attribuivano grande
importanza all’ora della nascita; non erano solo le stelle a determinare
l’oroscopo: tutti i segni importanti dati nel dies natalis si riferivano
a tutta la vita della persona (fulgura perpetua, in totam vitam fatidica,
v. sopra § 16, 5 a). Con il dies natalis gli aruspici stabilivano
subito il dies patrimoni accepti e il dies matrimonii primi (Sen. nat.
quaest. II 47. Plin n. h. II 139). Però prendevano anche, in conformità
alla disciplina caldea e greca, (Censorin. 14, 4 seg.) regolari periodi
della vita: ogni settimo anno era critico (cfr. Cens 14, 9) cioè
bisognava fare particolare attenzione ai segni degli dei. I libri fatales
etruschi contavano 12 settennati; però solo nei primi dieci, dunque
fino al suo settantesimo anno, l’uomo può differire il fato attraverso
riti espiatori. Poi non può più pretendere altro dagli dei;
se sopravvive ancora due settennati, la sua anima è separata dal
corpo e gli dei non gli mandano più alcun segno (prodigia) (Varrone
in Censorin. 14, 6).
I dieci settennati ce li ha già Solon (Censorin.
14, 4, cfr. Arist. pol VIII 15), i due eccedenti li aggiunge anche il peripatetico
Stasea di Napoli (prima metà del I secolo a.C.), certamente sotto
l’influsso etrusco. Etrusca è la relazione dei settennati con i
prodigia, le cui minacce potevano essere differite dalle espiazioni, etrusca
la dottrina della proroga decennale che essi usavano anche per i settennati.
§ 39. I secoli. La dottrina dei libri fatales è
stata trasferita dalla vita umana alla vita dello stato. Lo stato-città
ha il suo dies natalis e i segni dati nel suo giorno di fondazione si riferiscono
alla sua intera esistenza (v. § 38). Però lo stato, come l’uomo,
vive solo per un certo periodo e la sua vita si divide come quella umana
in periodi o secoli, la cui lunghezza corrisponde alla più lunga
durata della vita di un uomo (Censorin. 17, 2. 5). Poiché però
non veniva dato un numero preciso, gli dei facevano notare agli uomini
la fine di ogni secolo con segni speciali.
Anche per questi periodi vale la dottrina della proroga
decennale; c’erano infatti in totale solo dieci secoli quibus transactis
finem fore nominis Etrusci (Varrone, Censorin. 17. 6), cioè fino
al decimo secolo si potevano placare, attraverso mezzi di espiazione, le
minacce del fato annunciate dagli ostenta saecularia, poi non si poteva
pretendere più nulla dagli dei.
Le feste secolari sono quindi espiazioni degli
ostenta saecularia. Sono tramandati due segni analoghi: nell’anno 88 a.C.
il suono acuto e lamentoso di una tromba (Plut. Silla 7. Varrone in Serv.
Aen. VIII 526), nel 44 a.C. una cometa (Serv. Buc. IX 46). Un terzo sono
certamente i tertia manubia Iovis, perchè questo fulmine devastante
poteva mutare completamente la situazione dello stato e dei cittadini (v.
sopra § 15 c). Infatti in ogni nuovo anno platonico dominano altri
costumi e relazioni (Plut. Silla τά γένη διαφέροντα τοις βίοις καί τοις ήθεσι).
Negli anni 364 e 363 a.C. una devastante epidemia fu
espiata attraverso ludi more etrusco e il conficcamento di un chiodo (Liv.
VII 2 seg.). Che questo chiodo fosse un chiodo secolare risulta chiaro
dai fasti capitolini che annotano un dictator clavi figendi causa non solo
per l’anno 363, ma anche nel 263. Ma poiché anche nell’anno 463
a.C. era stato espiato il prodigium di una grande epidemia (Liv. III 6,
2), Mommsen Chronol.² 176 ha a ragione riferito all’anno 463 le parole
di Livio VII 3, 3 repetitum ex seniorum memoria dicitur, pestilentiam quondam
clavo ab dictatore fixo sedatam. Una devastante epidemia era dunque un
ostentum saeculare. Che il conficcamento di un chiodo, come i giochi degli
istri etruschi (Liv. VII 2, 6 ister Tusco verbo ludius, cfr. φersu-persona
Skutsch Arch. f. lat. Lexic. XV 145), fosse un mezzo di espiazione etrusco,
risulta da Liv. VII 3, 7 (Vulsiniis quoque clavos indices numeri annorum
fixos in templo Nortiae Etruscae deae comparere, diligens talium monumentorum
auctor Cincius affirmat. Boissier Society of biblical Archaeology 1902,
228 crede di riconoscere il clavus anche in un testo caldeo). Le prime
feste secolari romane erano dunque sicuramente di origine etrusca.
Secondo le Tuscae historiae scritte nell’VIII secolo
etrusco, i primi quattro secoli etruschi ammontavano a 100 anni ciascuno,
i seguenti a 129, 119 e 119 (Varrone Cens. 17, 6). Se noi possiamo assegnare
all’ottavo la stessa lunghezza di 119, abbiamo due periodi di ognuno quattro
secoli, i primi di 100 anni, gli ultimi di 120. Lo squillo di tromba dell’88
d.C. annunciava la fine dell’VIII secolo (Plut. Silla 7; poichè
infatti secondo Varrone c’erano dieci secoli, le parole di Plutarco οκτώ τά σύμπαντα γένη devono riferirsi a quelli già vissuti. L’aruspice
Vulcanio mise nell’anno 44 a.C. la fine del IX secolo secondo Serv. Buc.
IX 46). La cronologia etrusca cominciò dunque, secondo la tradizione
dei libri sacri, intorno all’anno 967 a.C.
Nella storia romana ritroviamo i secoli centenari e precisamente
anche qui una tetraeteris. Con l’anno 263 a.C. infatti è consumata
la vecchia espiazione secolare, il conficcamento di un chiodo, e secondo
una nuova visione il V secolo della città finisce solo con l’anno
249. In quell’anno, dopo prodigi di fulmini, furono celebrati per la prima
volta i ludi Tarentini secondo una sentenza dei libri sibillini (Varrone
in Censorin. 17, 8) e venne presa la decisione uti ludi centesimo quoque
anno fierent. Questa festa sibillina venne ripetuta nell’anno 146 a.C.
Non si sa se gli aruspici abbiano partecipato anche a queste feste secolari
o se i libri sibillini abbiano risentito dell’influenza etrusca. Nell’anno
44 o 43 una nuova sentenza sibillina annunciò la fine di un’epoca
mondiale di quattro secoli di 110 anni e l’inizio di una nuova simile (Verg.
Ecl. 4, 4 ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab integro saeclorum
nascitur ordo. Varrone in Agostino civ. dei XXII 28, v. Mommsen Chronol.²
184). Ma anche gli aruspici supposero in questi anni un cambiamento di
secolo per Roma (Vulcanio v. sopra Appian. bell. civ. IV 4). Una testimonianza
della partecipazione degli aruspici ai giochi secolari dell’epoca imperiale
la danno solo gli Acta ludorum saecularium Severi 204 d.C. CIL VI 4, 2
p. 3254 mox har[usp]icatione.
§ 40. L’interpretazione degli ostenta. Degli ostentari
etruschi o libri sugli ostenta si sono conservati solo tre frammenti della
traduzione latina di Tarquizio Prisco, sui quali v. Thulin Ital. sakrale
Poesie u. Prosa 1 seg. 71 segg.
Altrimenti conosciamo il loro contenuto, prescindendo
da brevi notizie sparse, solo dalle risposte che gli aruspici etruschi
hanno dato ai romani per i prodigi. Un tale responsum abbracciava di regola
quattro punti (v. Wissowa Relig. 47l): si indica, 1. da quale divinità
proviene il segno, 2. per quale motivo essi l’hanno mandato, 3. che cosa
annuncia (quid portendat), 4. come può essere espiato. Le citazioni
testuali di Cicerone de har. resp. ce ne danno un buon saggio:
1. § 20 quod in agro latiniensi auditus est strepitus
cum fremitu, postiliones esse Iovi Saturno Neptuno Telluri Dis caelestibus.
2. § 20 ludos minus diligenter factos pollutosque.
§ 9 loca sacra et religiosa profana haberi. § 34 oratores contra
ius fasque interfectos. § 35 fidem iusque iurandum neglectum. §
40 sacrificia vetusta occultaque minus diligenter facta pollutaque.
§ 40 ne per optimatium discordiam dissensionemque
patribus principibusque caedes periculaque creentur, auxilioque †diminuitis
(l. divinitus) deficiantur, qua re ad unum imperium pecuniae redeant exercitusque
apulsus (sit) deminutioque accedat. § 55 ne occultis consiliis res
publica laedatur. § 56 ne deterioribus repulsisque honos augeatur.
§ 60 ne rei publicae status commutetur.
1. Viene indicata la divinità. Livio I 34,
9 chiama Tanaquil perita ut vulgo Etrusci caelestium prodigiorum e le fa
dire: eam alitem ea regione et eius dei nuntiam venisse: si possono dunque
riconoscere gli dei nelle regioni del cielo anche da altri segni che non
i fulmini. Però gli aruspici, negli esempi tramandati, seguono norme
di tipo più semplice: se la statua di Apollo piange, deve essere
espiato Apollo (Obseq. 28 a): un frastuono che sale dalla terra esige la
riconciliazione di Cerere e Proserpina (Obseq. 43.46). Il responsum in
Cicerone menziona parecchi dei: postiliones esse Iovi Saturno Neptuno Telluri
Dis caelestibus.
2. Motivo per cui il segno fu mandato. Come motivo dell’ira
divina gli aruspici indicarono soprattutto le offese al ritus patrius.
Così nello H. Responsum di Cicerone (v. sopra). Anche il console
Postumio nel 186 a.C. (Liv. XXXIX 16, 7) e l’imperatore Claudio (Tac. ann.
XI 15) li elogiarono perché avevano spesso protetto i romani contro
l’infiltrazione di culti stranieri. Nel 48 a.C., p. esempio, il senato,
in seguito a un loro parere, prese provvedimenti contro il culto di Iside
(Cass. Dio XLII 26). Nel 163 a.C. essi affermarono non fuisse iustum comitiorum
rogatorem (Cic. div. I 33. II 74; nat deor. III 10). Che si sia sacrificato
spesso postridie (Kal. Id. Non.), era stato il motivo di molte disgrazie
secondo la dichiarazione dell’aruspice Aquinio nell’anno 391 a.C. (Macrob.
Sat. I 16, 21-24). Gli aruspici dell’anno 56 rimproverarono ai romani anche
illegalità e spergiuro (Cic. har. resp. 34. 36).
3. L’importanza dei segni. Dei quattro punti sopra esposti
dei responsa haruspicum entra in primo piano, nei resoconti romani dei
prodigi, la risposta alla domanda quid portendat prodigium, poiché
gli aruspici erano a questo riguardo la più alta autorità
grazie alla loro scienza (Wissowa Relig. 472. Cic. div. I 92). Segue una
breve visione d’insieme delle interpretazioni tramandate.
§ 41 Il terremoto è un segno molto infausto
per lo stato come per il singolo (Serv. Aen. IV 166 secundum Etruscam disciplinam
nihil tam incongruum nubentibus quam terrae motus vel caeli. Ammian. Marc.
XXIII l, 7 minus laetum . . . aliena pervadere molienti rectori). Allo
stato esso annuncia lotte intestine (Cic. div. l 97 Aetna mons terrae motu
. . . ar. resp. seditionem ... portendit). Così pure vengono interpretati
i boati connessi al terremoto (strepitus cum fremitu, horribilis fremitus
armorum). A ciò si riferiscono tutte le minacce degli aruspici nel
responsum comunicato da Cicerone, nel quale appare allo stesso tempo chiara
la tendenza aristocratica degli indovini etruschi: essi ammoniscono gli
ottimati alla concordia nella lotta contro il potere assoluto e i plebei
(deteriores repulsique). Cfr. Obseq. 48 civiles portendere discordias ;
57 molem ingentis belli portendere. Lo squillo di tromba dell’88 a.C. (Plut.
Silla 7) contrassegnava un nuovo secolo. Cfr. Plin. II 148.
Interpretato come sospiro della terra, questo rombo annuncia
infatti carestia e pretende la riconciliazione di Cerere e Proserpina secondo
Obseq. 46.
La statua di Giove abbattuta dalla tempesta minacciava,
secondo l’affermazione degli aruspici nell’anno 152 a.C., la vita dei funzionari
e dei sacerdoti che in seguito a ciò deposero tutti le loro cariche
(Obseq. 18). La statua di Nike scagliata in avanti ma rimasta dritta dava
invece un segno di vittoria (Zonar. VIII l, 2-4). Dopo piogge di ferro
gli aruspici profetizzarono nell’anno 64 a.C. superna volnera (Plin. n.
h. II 147), invece dopo piogge di gesso nell’anno 98 a.C. un buon raccolto
(Obseq. 47). Che nel 130 a.C. la statua di Apollo a Cuma ‘piangesse’ lo
interpretarono con il tramonto della Grecia. Gocce di miele e latte sull’altare
di Giove sul Campidoglio nel 296 a.C. erano segni di malattia (perchè
il miele era un farmaco) e carestia, ma gocce di sangue un vecchio etrusco
le interpretò questa volta come un segno di vittoria, poichè
si era soliti offrire su questo altare sacrifici per la vittoria. (Zonar.
VIII l, 2).
§ 42. Segnali dal cielo. Secondo i libri sacri tradotti
da Tarquizio, gli aruspici etruschi dell’imperatore Giuliano interpretarono
come segni infausti tanto fax in caelo quanto l’apparizione di una cometa
(Ammian. Marc. XXV 2, 7. 10, l seg.). Nel 44 a.C. perfino l’aruspice Vulcanio
affermò che la cometa di quell’anno annunciava l’arrivo del decimo
e ultimo secolo (Serv. Buc IX 46). L’interpretazione favorevole di questo
segno, manifestatasi fra i poeti come Caesaris astrum, risale certamente
a una fonte greca, i libri sibillini (cfr. Verg. Buc. IV 9).
Sui contatti con l’astrologia v. § 38 e Thulin Marziano
Capella 79 segg. Però solo al tempo di Alessandro Severo si racconta
che gli aruspici facevano l’oroscopo solo secondo le stelle (Hist. Aug.
Al. Sev. 13, 5). In Verg. Aen. X 175 sidera sta per tutti i segni del cielo.
§ 43. Segni degli alberi. Dello ostentarium arborarium
si è conservato un frammento della traduzione di Tarquizio nella
quale vengono indicati gli arbores infelices, Macrob. Sat III 20, 3 Tarquitius
autem Priscus in ostentario arborario sic ait: arbores, quae inferum deorum
avertentiumque in tutela sunt, eas in felices nominant: al‹a›ternum, sanguinem,
filicem, ficum atrum, quaeque bacam nigram nigrosque fructus ferunt, itemque
acrifolium, pirum silvaticum, [p]ruscum, rubum sentesque, quibus portenta
prodigiaque mala comburi iubere oportet (cfr. Plin. n. h. XVI 108. Thulin
Ital. sakrale Poesie und Prosa l seg. 71 segg.). Sono alberi inutili (soprattutto
quelli con frutti neri) e arbusti che non sono mai stati piantati. Con
il loro legno si bruciavano prodigi cattivi e si frustavano i malfattori
(v. § 37); molti di loro avevano però una meravigliosa efficacia
come medicamenti (virga sanguinea; Plin. n. h. XXIV 73; tamarica ibidem.
XXIV 67 seg.). Nella dottrina degli alberi infelici c’è quindi contemporaneamente
una sorta di medicina magica, e gli di avertentes, sotto la cui protezione
stanno questi alberi, sono ‘quelli che scacciano il male’.
Gli arbores felices sono, secondo la dottrina dei Pontifices
gli alberi utili che vengono piantati (Macrob. Sat. III 20, 2 ait enim
Veranius de verbis pontificalibus ‘felices arbores putantur esse quercus
aesculus ilex suberies fagus corylus sorbus ficus alba pirus malus vitis
prunus cornus lotus’). Che questa suddivisione fosse comune agli aruspici
e ai Pontifices, risulta chiaro dall’uso simile degli alberi infelici nell’antico
diritto romano e nella religione etrusca (v. § 37).
Al giovane Vespasiano gli aruspici promisero summa claritudo
poiché su un suo fondo un cipresso caduto si era rialzato da solo
(Tac. hist. II 78). Anche la seguente è una interpretazione degli
aruspici Hist. aug. Alex. Sev. 13, 7 nata in domo laurus iuxta persici
arborem intra unum annum persici arborem vicit. unde etiam coniectores
dixerunt Persas ab eo esse vincendos. Cfr. inoltre Plin. n. h. XVII 244.
§ 44. Segni degli animali. Come gli arbores felices
e infelices sembra che si sia fatta una distinzione anche fra animalia
felicia e infelicia. Sono da mettere tra gli animali infelici: gli animali
feroci come il leone (Ammian. Marc. XXIII 5 10) e il lupo, uccelli rapaci
e notturni come l’avvoltoio (Plin. n. h. X 19; v. § 46), la civetta
(op. cit. 34 dirum ostentum), il mignattino (op. cit. 37 inauspicata est
et incendiaria avis . . . alii spinturnicem eam vocant), dopo la cui apparizione
a Roma o in un tempio era sempre necessaria una lustratio urbis (Plin.
X 35 seg.). Anche l’uccello chiamato clivia (Plin. X 37 Labeo prohibitoriam
dicit) fa parte di questa categoria; a giudicare dalla interpretazione
di Plin. X 41, anche il picchio era feralis. Animali infelici sono inoltre
i topi (Cic. div. I 99 Lanuviis clipeos, quod harztspieibus tristissimum
visum esset, a muribus esse derosos) e le api (Plin. n. h. XI 55 haudquaquam
perpetua haruspicum coniectura, qui dirum id ostentum existimant semper).
Gli animali domestici invece davano spesso segni buoni.
Che i cavalli facessero parte degli animalia felicia, risulta chiaro da
Serv. Aen. III 537 in libris Etruscis invenitur etiam equos bona auspicia
dare. Poiché Virgilio parla qui di cavalli bianchi (538 candore
nivali), bisogna attribuire a questo colore un significato particolarmente
felice (Schmeisser Die etrusk. Disciplin 17, 83). Una pecora o un montone
con macchie purpuree o dorate (purpureo aureove colore ovis ariesve si
aspergetur) annunciava a un nobile (principi) e alla sua discendenza fortuna
e gloria (Macrob. Sat. III 7, 2). Ad Antonino Geta un aruspice promise
l’imperium in seguito a questo segno (Hist. aug. Geta 3, 5). Gli aruspici
interpretarono un uovo di colomba purpureo come un imperium che sarebbe
sopraggiunto presto ma sarebbe stato breve (Hist. aug. Al. Sev. 18. l).
Le serpi davano presso gli etruschi come presso molti
altri popoli (Hopf Tierorakel und Orakeltiere 1888, 182 segg. Jastrow Relig.
Babyloniens II 376, 2), ora segni cattivi, ora buoni. A giudicare dagli
esempi tramandati, una serpe significava fortuna (Cic. div. I 72 Silla.
Liv. XXVI 19, 6 e Gell. VI l, l-15 Scipio minor. Cic. div. I 79 Roscius.
Tac. ann. XI 11 unam omnino anguem Nero), due sfortuna (Liv. XXV 16 ab
occultis cavendum hominibus consultisque Ti. Gracchus; Cic. div. I 36 segno
di morte per il padre dei famosi Gracchi o di sua moglie), serpi nere sempre
sfortuna (Obseq. 28 angues duo nigri - civilem caedem portenderunt).
Certi segni animali si riferiscono soprattutto ai regnanti
(regalia ostenta). Un leone ucciso annunciò la morte di un re, Ammian.
Marc. XXIII 5, 8 obitus regis portendebatur; 10 principi... contrarium.
Le colombe davano segni solo alle regine (Serv. Aen. I 393). Sugli animali
purpurei v. sopra. Anche le api, il simbolo della monarchia, fanno parte
di questa categoria perchè la loro apparizione in luoghi prodigiosi
annunciava l’avvento di un sovrano straniero (Verg. Aen. VII 59. 68 seg.),
la caduta della repubblica e incombente assolutismo (Cic. har. resp. 25
ut a servitio caveremus), la morte dei consoli (Liv. XXVII 23, 2 segg.)
o dell’imperatore (Cass. Dio. LXI 35, l). Sulla hist. aug. Anton. Pio 3,
5 v. Thulin E.D. III l00 seg.
§ 45. Osservazione degli uccelli. Auspicia. Che
negli ostentari etruschi fossero dipinti insieme al testo molti uccelli
(cfr. l’illustrazione dei testi caldei della extispicina), lo menziona
Plinio trattando gli uccelli infelici romani (Plin. n. h. X 37 sunt praeterea
complura genera depicta in Etrusca disciplina, saeculis non visa; cfr.
Fest. 330 spinturnix avis genus turpis figurae).
Questi uccelli infelici sono, a giudicare da Plin. n.
h. X 34-40, come pure gli alberi infelici (§ 44), gli stessi nella
dottrina augurale romana e nella disciplina etrusca, e anche altrimenti
non mancarono certamente le concordanze fra le due dottrine (cfr. p. es.
la gerarchia degli auspici e dei fulmini § 16, 2). Ma mentre nella
dottrina augurale romana veniva considerato solo un piccolo numero di uccelli,
quelli augurali, (Cic. div. II 76 externa auguria . . . omnibus fere utuntur,
nos admodum paucis), secondo la disciplina etrusca ogni uccello può
dare segni divini (Serv. Aen. I 398 . . . in libris reconditis [cfr. Serv.
Aen. II 649] lectum esse, posse quamlibet avem auspicium adtestari, maxime
quia non poscatur). E mentre i romani potevano capire dai segni dati solo
se gli dei erano disponibili o no a un’azione, gli indovini etruschi potevano
esplorare il futuro dai segni (Wissowa v. Augures vol. II p. 2315). La
dottrina augurale comprendeva solo cinque categorie di segni: (Fest. 261)
ex caelo, ex avibus, ex tripudiis, ex quadrupedibus, ex diris, ma non gli
exta, e perfino la posizione speciale dell’osservazione degli uccelli,
che si manifesta nelle parole augur auspicium, è estranea alla dottrina
etrusca (cfr. la parola haruspex); gli etruschi sembrano perfino aver usato
per auguralis un prestito umbro aviekl (Skutsch Vollm. Jahresber. V 52.
Cfr. inoltre Wissowa Relig. 450. 453, 7).
Tutto testimonia dunque dell’accettazione di una dottrina
augurale genuinamente romana e i romani stessi l’hanno rigorosamente distinta
in epoca storica dalla dottrina degli aruspici stranieri. Ma le concordanze
testimoniano che la dottrina romana ha avuto forti influssi etruschi. La
stessa cosa dimostra già l’ephiteton degli auguri, il lituus, che
ci è noto dapprima sui monumenti etruschi. Sull’origine etrusca
del pomerium, che gioca un ruolo importante nella dottrina augurale, v.
§ 31.
Conosciamo pochissime particolarità dell’osservazione
degli uccelli etrusca. Seguendo l’aruspice Umbricio, Plinio racconta che
l’apparizione di un avvoltoio annuncia una morte dopo tre giorni (Plin.
n. h. X 19 Umbricius haruspicum in nostro aevo peritissimus parere tradit
[sc. vultures] ova tredecim, uno ex his reliqua ova nidumque lustrare,
mox abicere. triduo autem ante advolare eos, ubi cadavera futura sunt).
Egli comunica una interpretazione X 41: (picus) in capite praetoris urbani
Aelii Tuberonis ... respondere vates exitium imperio portendi, si dimitteretur
at si exanimaretur praetori (cfr. Cic. div. I 36). Ai fulgura regalia §
17 e agli exta regalia § 2 corrispondono gli auspicia regibus
data (Ser. Aen. I 393 columbae).
§ 46. L’espiazione degli ostenta. Nei prodigi interessava
ai romani soprattutto mitigare l’ira degli dei attraverso i mezzi d’espiazione
giusti e stornare le minacce. Inoltre questo era sempre il motivo essenziale
per il quale si chiamavano gli aruspici, anche se nei testi spuntano di
più le interpretazioni (in Liv. XLII 20, 4, infatti, gli aruspici
indicano l’interpretazione, i decemviri il mezzo d’espiazione, ma qui essi
non dovevano pensare all’espiazione perché ritenevano il segno favorevole:
prolationem finium . . portendi). Nei primi secoli della repubblica venivano
interrogati per i prodigi di stato molto più spesso i libri sibillini
che gli aruspici. Espiazioni dei Pontifices sono menzionate solo fra il
213 e il 176 a.C. (Wülker Prodigienwesen, Diss. Leipz. 1903, 31).
Ma dal secondo secolo precristiano in poi cresce sempre più l’influenza
e la fama degli aruspici (v. § 4 A), finchè le relazioni sui
prodigi ufficiali cessano quasi con la fine della repubblica.
Il primo compito dell’espiazione degli aruspici era quello
di eliminare le tracce del segno infausto (Wülker op. cit. 36. 39).
Il posto colpito veniva dichiarato religiosus e recintato (sulla fossa
del fulmine v. § 18 A. Obseq. 70 in castris Cassii examen apium consedit.
locus aruspicum iussu interclusus interius ducto vallo. Cfr. Liv. XXV 17,
2 loco puro) o anche accuratamente pulito (p. es. regolarmente la città,
se erano penetrati animali infelici). A una statua abbattuta dal fulmine
o dalla tempesta veniva assegnata una migliore collocazione (Gell. IV 5,
1. Cic. Cat. III 19 haruspices ex tota Etruria. . . iusserunt simulacrum
Iovis facere maius et in excelso conlocare et ... ad orientem convertere).
Un tempio doveva invece essere riscostruito sullo stesso posto e nella
stessa forma di prima (Tac. hist. IV 53, v. § 33).
I prodigi stessi venivano bruciati, secondo il frammento
riportato al § 44, con il legno di arbores infelices (Liv. XXXV 9,
4 uno sciame di vespe; XXXVI 37, 2 due buoi visti a Roma su un tetto: eos
vivos comburi cineremque eorum deiici in Tiberim haruspices iusserunt;
il piccolo di un mulo Lucan. Phars. I 590 infaustis urere flammis: un essere
deforme Obseq. 25 puer quattuor pedibus). Invece gli ermafroditi venivano
di regola allontanati dal territorio romano e gettati in mare, chiusi vivi
in una bara (Liv. XXVII 37, 6 extorre agro Romano procul terrae contactu
alto mergendum. vivum in arcam condiderunt. Obseq. 22; cfr. 27. 32. 34.
86. 47. 48. 50, dove tuttavia gli aruspici non vengono nominati espressamente.
In Liv. XXXIX 22, 5 (= Obseq. 3) si dice solo arceri Romano agro necarique).
Per adulti che avevano modificato il loro sesso, questa legge venne modificata
così che venivano abbandonati su un’isola deserta (171 a.C., Plin.
n. h. VII 36 = Gell. IX 4,15).
Questi diversi modi di annientamento non furono in seguito
differenziati rigorosamente. Un androgino adulto venne bruciato nell’anno
92 a.C. (Diodor. XXXII 12, 2; cfr. Obseq. 53), un essere deforme gettato
nell’anno 83 a.C. in acqua corrente (Obseq. 57), e lo stesso nel 112 d.C.
(Phlegon fr. 54).
Animali parlanti venivano invece mantenuti a spese dello
stato su ordine degli aruspici, come se attraverso essi avesse parlato
la divinità (Liv. XXXV 21, 5. XLI 13, 2).
Per prodigi di stato il senato decise espiazioni particolari
su ordine dei pontifices, decemviri o aruspici. Gli esempi tramandati dimostrano
che in quelle occasioni gli aruspici di regola non hanno raccomandato riti
espiatori etruschi, ma si sono attenuti a quelli comuni romani e greci
(Varro de l. l. VII 88 cum haruspex praecipit, ut suo quisque ritu sacrificium
faciat), mentre gli dei greci e il ritus graecus sono penetrati a Roma
con la mediazione dei detti sibillini. Quindi gli aruspici raccomandavano
spesso sacrifici, regali, offerte di denaro, statue, lustratio urbis, ma
anche veri mezzi di espiazione greci come supplicatio e cori di vergini;
una volta ludi per X dies (Cic. Cat. III 19). Essi però usavano
questi mezzi secondo principi propri. La Lustratio urbis era una espiazione
romana consolidata se comparivano in città animali infelici; gli
aruspici usavano questo mezzo dopo prodigi di fulmini. I libri sibillini
prescrivevano cori di vergini unitamente a stips Cereri et Proserpinae
dopo prodigi di androgini, gli aruspici invece dopo il terremoto e i segni
ad esso connessi, mentre invece espiavano con supplicatio tanto segni di
androgini quanto quelli contro natura del regno animale e vegetale (Thulin
E.D. III 126 seg.).
Ma ci sono testimonianze del fatto che anticamente gli
aruspici osavano ancora proporre ai romani riti etruschi. La vecchia espiazione
secolare, il conficcamento di un chiodo, era certamente etrusca, e i ludi
more Etrusco dell’anno 364 a.C. rappresentati da istri etruschi sono senza
dubbio raccomandati dagli aruspici. Testimonia della loro capacità
di adattamento il fatto che smisero quando videro quanto i romani fossero
contrari a tutto ciò che era straniero. Ma non possiamo disconoscere
ai libri etruschi quelle espiazioni solo perchè esse sono romane
o greche. Molti mezzi di espiazione, come sacrifici, regali, lustratio
urbis, erano certamente comuni agli etruschi e ai romani, molti probabilmente
anche ai libri etruschi e sibillini poichè gli etruschi avevano
accolto moltissimo di greco e non certo meno nella dottrina delle espiazioni.
[Thulin]
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