Palermo |
Panormos, più esattamente Panhormos, l’antichissima, importante città sulla costa
settentrionale della Sicilia, l’odierna Palermo. Presso i Greci il nome è
unanimemente Πάνορμος, e precisamente, secondo la
derivazione da όρμος (quindi ‘tutto porto’), in
prevalenza maschile, così Polyb. I 21, 6. 24, 9. 40, 1. Diod. XI 20, 2. XXII 10, 4; ma ή Πάνορμος Diod. XXIII 18, 3. XXIV l, l e fecunda Panhormos Sil.
Ital. XIV 261,
poiché si era soliti immaginarsi femminili le città ed erano disponibili molte
analogie di nomi femminili di città in – ος, cfr. anche sotto la voce
Münzen. Il τό Πάνορμον in Diod. XXIII 21 (estratto
di Hoeschel!) e Zonar. VIII 14 (II 213, 22 Dind.) lo si potrebbe trascurare se
non trovasse un riscontro in Plin. n. h. III 90 oppida Panhormum Soluus
ecc.; quindi si deve accettare anche l’esistenza della forma accessoria neutra.
(La gran parte delle citazioni offrono come naturali forme di casi che non
permettono di riconoscere se si intende la forma maschile o femminile; ma i
geografi Strab. VI 272, Tolom. III 4, 3, Steph. Byz., Mela II 118, Saffo fr. 6
e la moneta n. 111 Holm hanno Πάνορμος, che è dunque da prendere
come la forma nominale.) L’etnico Πανορμίτης è attestato da Polyb.,
Diod., Steph. Byz., iscrizioni e monete, ή Πανορμίτις come nome del paese da Polyb. I 40, 2.4. 56, 3 e Athen.
XII 542 a (cfr. anche Steph. Byz.). Πανορμιτικόν (naturalmente νόμισμα) dalla moneta n. 111 Holm;
senza valore Steph. Byz.: οι
κατοικουντες Πανορμηνοί…λέγεται
δέ καί
Πανορμεύς. I romani sono stati incerti
fra la scrittura con la h e quella senza. Panormitanorum è su una
moneta dell’epoca di Augusto (n. 743 Holm), Panhormitanorum su un’altra
dello stesso periodo (744), ma 11 iscrizioni imperiali che contengono il nome
lo scrivono tutte con la h (CIL X 7270-7275. 7279. 7281-7283. 7285). La
tradizione manoscritta esita, ma la scrittura con la h è prevalente,
così Cicerone (in molti passi, soprattutto per Panhormitanus), Plin.,
Mela, Sil. Ital., Flor., Frontin. contro Liv., De vir. ill., Oros., Itin. Ant.
— E’ molto strano che nessuna fonte ci riporti il nome che la città aveva
presso i suoi antichi abitanti fenici, sotto il cui dominio essa è restata fino
alla conquista dei romani nel 254. Ma tutti i tentativi di ricavare il nome
punico di P. dalle monete con iscrizioni puniche, assai numerose in Sicilia,
falliscono perché non è assolutamente sicuro che queste monete siano state
coniate a P. e diano il nome della città, poiché oltretutto le leggende sono
molto diverse, v. sotto. Evidentemente presso i greci, che con ogni probabilità
fin dall’inizio della formazione delle loro colonie in occidente avevano un
vivace traffico commerciale con la città, si è consolidato presto il nome greco
‘tutto porto’ ed esso è stato assunto dagli abitanti di P., come mostrano le
monete del V secolo con leggenda greca, v. sotto. La spiegazione più naturale
di questo strano fenomeno è quella che il nome greco P. sia la grecizzazione
popolare di un nome fenicio dal suono simile — In bocca agli Arabi il nome
divenne Balarm, da cui nacque poi Palermo. — Assolutamente non sicura è la
supposizione di Mommsen, basata solo su alcune monete con il monogramma POR,
che P. abbia avuto in epoca romana anche il nome di Portus. Storia. La più antica
attestazione pervenutaci 1 su P. è
la notizia di Thuc. VI 2, 6, che i Fenici, che prima avevano avuto filiali
commerciali in tutta la Sicilia, chiusero la maggior parte di questi
insediamenti allorché la spinta della colonizzazione greca si fece più forte e
si ritirarono nel territorio di Mozia, Solunto e P., appoggiandosi alla
federazione degli Elimi là residenti e anche perché da lì il tragitto dalla
Sicilia a Cartagine era più breve. Quindi P., nell’VIII secolo, è esistita in
ogni caso come insediamento punico; se lo sia stata prima di quel periodo, è
possibile fare solo vaghe supposizioni, cfr. Movers Die Phönizier II 2, 310. 335
segg. (L’ipotesi di Holm, basata su null’altro che il nome greco, Arch. stor. Sicil.
IV 1879, 421 segg., che P. sia nata originariamente come colonia greca e
successivamente sia stata loro strappata dai Fenici, è stata a ragione
rifiutata da Freeman-Lupus I 519 segg. Altrettanto inverosimile è l’ipotesi di
Columba 424 che la ‘città nuova’ di P. [v. sotto] si sia formata
prevalentemente per l’afflusso di elementi ellenici e che il nome P., che
questi avrebbero dato al loro quartiere posto sul porto, sia stato usato in seguito
per la città vecchia e la nuova, specialmente dopo che entrambi i quartieri
furono contenuti entro un anello murario. La supposizione di una parte tanto
consistente di popolazione ellenica non è compatibile con il fatto che la città
di P. sia stata ininterrottamente fino alla conquista romana una delle più
salde e fidate roccheforti puniche.) Originariamente
senza dubbio indipendente, P. (come Mozia e Solunto), fu in seguito soggetta
all’apparentata Cartagine dopo il rafforzamento della potenza cartaginese e
sotto la pressione dei pericolosi vicini greci, e a Cartagine si tenne sempre
fedele fino alla sottomissione ai Romani, servendo spesso nelle guerre contro
Greci e Romani come punto d’appoggio per la flotta e base operativa. Ciò è
menzionato nelle nostre fonti dapprima per l’anno 480, allorché Amilcare
approdò a P. con il suo esercito e da lì marciò su Imera dove subì una
sconfitta devastante, Diod. XI 20, 2. Nella descrizione della campagna di
Annibale del 409 Diodoro (XIII 54—62) non menziona P., sebbene essa sia senza
dubbio servita come base nell’attacco a Imera, ma solo la campagna di
saccheggio fatta nello stesso anno da Ermocrate, dopo la ricostruzione di
Selinunte, prima nel territorio di Mozia e poi in quello di P., durante la
quale egli batté la πανδημεί di cittadini in marcia con
la perdita di 500 uomini, respingendoli in città senza peraltro osare un
assalto alla stessa (XIII 63, 4). Nell’assedio di Akragas nell’anno 406
Imilcone fece venire da P. e Mozia 40 triremi con le quali attaccò di sorpresa
e annientò una flotta ausiliaria mandata da Siracusa (XIII 88, 3—5). Nella
grande campagna contro i Cartaginesi del 397 Dionisio devastò, durante
l’assedio di Mozia, anche il territorio di Solunto e P. e chiuse i cittadini
entro le loro mura (τήν μέν ούν των Σολουντίνων καί Πανορμιτων...χώραν ό Διονύςιος λεηλατήσας εδενδροτόμησε XIV 48, 5. πασαν τήν υπό Καρχηδονίους χώραν δηώσας καί τούς πολεμίους τειχήρεις ποιήσας 49, 3; cfr. 55,2 — 4), ma
non assalì la città e la sua speranza che dopo la caduta di Mozia le altre
fortezze dei Cartaginesi si sarebbero arrese, andò delusa, anzi nell’anno
seguente Imilcone approdò a P. con il suo nuovo esercito, da lì riconquistò
Erice e Mozia e costrinse Dionisio a cedere di nuovo tutto l’occidente
dell’isola (XIV 55. 68, 5). Nella guerra cartaginese del 383, il cui andamento
è assolutamente non chiaro per la trattazione troppo sommaria di Diodoro,
soprattutto a livello topografico, P. è in ogni caso servita di nuovo come base
principale per i Cartaginesi, poiché essi dopo la loro vittoria sul Kronion vi
ritornarono (XV 17, 4). Anche nella guerra del 368, durante la quale la lotta
divampò intorno a Lilybaion (Marsala) ed Erice, P. deve sicuramente avere
svolto un importante ruolo come base per la flotta cartaginese, sebbene Diod.
XV 73 non lo dica. La stessa cosa vale per le guerre di Timoleone e Agatocle,
finché si svolsero nella Sicilia occidentale; in ogni caso città e territorio
di P. non sembrano essere stati coinvolti. Ciò invece accadde, per quanto ne
sappiamo, solo quando Pirro nel 278 sottrasse ai Cartaginesi tutta la Sicilia
fino a Lilybaion (Marsala) con un poderoso assalto; in quell’occasione anche P.
venne espugnata insieme al castello sullo Eirctè
(Monte San Pellegrino) (Diod. XXll 10, 4). Tuttavia, dopo il ritiro di Pirro,
ritornò come tutte le sue altre conquiste in possesso dei Cartaginesi, che noi
troviamo 10 anni dopo, all’inizio della prima guerra punica, saldamente in
possesso della metà occidentale dell’isola. P., ήπερ
ήν βαρυτάτη
πόλις τησ Καρχηδονίων
επικρατείας (Polyb. I 38, 7), è la loro fortezza
principale sulla costa settentrionale. Lì si ferma nel 260 il comandante in
capo Annibale col grosso della flotta per condurre operazioni contro Lipari e
la costa italica (Polyb. I 21, 6—11). Anche l’esercito cartaginese agli ordini
di Amilcare è concentrato presso P.; subito dopo la battaglia navale presso
Mylai (Milazzo) egli attacca i federati romani accampati fra Thermai Himeraiai
e Paropos, che si sono separati dal grosso dell’esercito e uccide 4000 uomini
(Polyb. I 24, 3). Per strappare ai Cartaginesi questa base che a loro serve
come accampamento invernale per l’esercito e la flotta, nel 258 i consoli A.
Atilio Calatino e C. Sulpicio Patercolo arrivano davanti a P. con tutto il loro
esercito, però devono ritirarsi di nuovo poiché il nemico non accetta la
battaglia e i loro mezzi evidentemente non bastano per l’assedio della possente
fortezza marina (Polyb. I 24, 9 seg.). Soltanto quattro anni più tardi
(254) la conquista riesce allo stesso Calatino nel suo secondo consolato e al suo collega Cn.
Cornelio Scipione Asina, e precisamente con un attacco combinato per mare e per
terra. Con una forte flotta ricostruita e portata a 300 unità con l’aggiunta
delle 80 navi salvate dal grande naufragio di Camarina, essi penetrano di
sorpresa — dopo la conquista di Kephaloidion e Drepana (Trapani), che viene di
nuovo loro subito strappata da Karthalon (Diod. XXIII 18, 3) — nel porto di P.
visibilmente sgombero di truppe nemiche e incominciano l’assedio. Esso è
descritto in modo sostanzialmente concordante da Polyb. I 38, 7—9. Diod. XXIII
18, 4. 5 e Zonar. VIII 14 =
Cass. Dio. I p. 163 Boiss., ma con piccole differenze nei particolari,
nelle quali emergono anche — sono gli unici passi di fonti antiche al riguardo
— alcune indicazioni sulla speciale topografia della città di P. Secondo esse
la città consisteva di due parti, che si chiamano ή καλουμένη
νέα
πόλις e ή
παλαιά προσαγορευομένη in
Polyb., ή εκτός
πόλις
e
ή αρχαία
πόλις in
Diod., ή κάτω πόλις e ή άκρα in
Zonar. Il primo assalto dei Romani — o quello principale, poiché secondo le
parole di Polyb. συστησάμενοι
δέ
κατά
διττούς
τόπους
έργα e
da considerazioni generali si deve supporre che le due parti cittadine vennero
subito attaccate contemporaneamente — s’indirizzò contro la città ‘nuova’ ‘esterna’ o ‘bassa’.
L’accerchiamento venne esteso da mare a mare (Diod.), la ‘torre sul mare’ cadde
facilmente (Polyb.), e attraverso la breccia creatasi questa parte della città
venne espugnata, secondo Zonar. ου
χαλεπώς. I
difensori che non cadevano si rifugiavano nella città vecchia (Diod.). Dopo la caduta della città
nuova, questa era tanto minacciata che si arrese dopo breve tempo;
così Polyb. e Diod., mentre secondo Zonar. essa diede ancora molto filo da torcere
agli assedianti e fu costretta a capitolare solo per fame. Da queste
descrizioni risulta che città vecchia e città nuova erano parti separate con
fortificazioni proprie. Per maggiori notizie v. sotto Topografia. Secondo Diod.
la capitolazione della città vecchia avvenne a condizione che ricevesse la
libertà ogni abitante, per il quale fossero pagate due mine. Il risultato fu
che 14000 persone furono rimesse in libertà, mentre altri 13000 divennero
bottino dei vincitori insieme a tutti gli averi della città (τήν άλλην
αποσκευήν).
Quanto fosse grande il numero di schiavi catturati che naturalmente facevano
parte della αποσκευή,
non possiamo saperlo, ma il numero totale di abitanti di P. non doveva essere
minore di 100000 (inclusa la città nuova), fra i quali potevano trovarsi però
molti profughi della pianura. (Contro Holm III 350, col quale essenzialmente
concordo, Columba 419 insieme a Beloch Die Bevölkerung der
griechisch-römischen Welt 1886, 294 e Arch. stor. Sic. 1889, 55 segg. abbassa a circa 30000
la popolazione totale di P. Per una valutazione anche solo relativamente sicura
di questo problema i nostri documenti non sono assolutamente sufficienti.
Sicuramente sbagliato però è credere che nel numero indicato da Diodoro di
14000 + 13000 persone fossero compresi gli schiavi. Di una loro liberazione o
riscatto non si può parlare, perché essi facevano ovviamente parte del bottino.
Ora, se anche non sappiamo quale fosse la relazione numerica tra liberi e
schiavi a P., in ogni caso si giunge a un numero totale notevolmente più alto
di 30000.) Durante l’assedio non sembra ci fosse a P. una considerevole
guarnigione cartaginese, poiché le fonti non ci comunicano nulla né di essa, né
di un comandante cartaginese. (Breve accenno della presa di P. in De vir. ill.
39, 2 e Flor. I 18, 12, che ascrive il fatto erroneamente al Calatinus
dictator, v.
sopra,
vol. II p. 2080.) La
perdita di un posto così importante fu da attribuire alla leggerezza dei
Cartaginesi che lo lasciarono senza sufficiente protezione. I Romani non
commisero questo errore; lo protessero invece con una forte guarnigione.
Inoltre essi integrarono gli abitanti punici rimasti (quando non furono
trapiantati altrove) con elementi fidati e favorevoli a Roma. Nell’anno
successivo P. servì subito da base ai Romani di ritorno dalla sfortunata
spedizione in Africa (Polyb. I 39, 5. Diod. XXIII 19). Durante tutta la seconda
metà della guerra la lotta si svolse principalmente intorno a Lilybaion
(Marsala) e P. Il tentativo di Asdrubale nel 251 di attaccare P. per terra con
forze imponenti,
fu sventato dalla brillante vittoria che L. Caecilio Metello riportò
in una sortita molto celebrata (Polyb. I 40. Diod. XXIII 21. Zonar. VIII 14. Liv. per. 19 [senza
nominare la città di P.]. Frontin,
strat. II 5, 4. III 17, l. Flor. I 18, 27, 28. Eutrop. III 24. Oros.
IV 9, 14.
15; Columba 425 pensa di poter determinare la porta attraverso la quale Metello
fece la sortita: la Bâb-al-abnâ nell’angolo sud occidentale). Alla
riacquisizione di P. servì anche, in prima istanza, l’occupazione dello Heirkte
ad opera di Amilcare e la guerra di posizione protrattasi per anni, da lui
condotta da là contro i Romani accampati davanti a P. (Polyb. I 56. 57). Successivamente
P. è menzionata solo due volte durante la seconda guerra punica: nel 214 i
Romani posizionano lì la prima legione per l’attacco a Siracusa via terra (Liv.
XXIV 36), e
nel 205 P. serve a Scipione come stazione per la flotta (XXIX l). Pura fantasia
(come la maggior parte delle sue indicazioni in questo passo) è l’affermazione
di Sil. Ital. XIV 261, che P. nella seconda guerra punica abbia fatto parte dei
confederati dei Cartaginesi e abbia messo a disposizione 3000 combattenti; del
resto essa è anche inconciliabile con tutto quello che noi sappiamo sul corso
generale degli avvenimenti e la menzionata indicazione di Livio. — Dalle guerre
di schiavi, per quanto ne sappiamo, P. non è stata toccata. Sulla posizione di diritto
pubblico di P. nella provincia romana di Sicilia Cic. Verr. III 6, 13, ci
racconta che essa fece parte delle cinque civitates sine foedere immunes ac
liberae. Schubring 15 suppone che il motivo di questa privilegiata
posizione fosse che P. ‘fu conquistata solo in parte e prestissimo
riconsegnata’. Ma allora molti comuni della Sicilia, la cui sottomissione era
costata ai Romani ben poca fatica, avrebbero meglio meritato questo onore. Ai
14000 Punici, che si erano potuti acquistare soltanto la vita e la libertà con
due mine ciascuno, non furono certo accordati diritti speciali. Nuovi e fidati
abitanti furono insediati in città e disposti in modo che fosse assicurato a
quell’importante posto un prospero sviluppo. Pertanto, al tempo di
Cicerone, P. era da annoverare tra le più importanti città dell’isola insieme a
Siracusa, Agrigento, Catania e Lilybaeum (Marsala). Era una delle città in cui
i pretori tenevano i loro giorni d’udienza (Verr. II 26, 63. V 54, 140) Dei
commercianti di P. e del suo commercio marittimo si parla piuttosto spesso (II
62, 153. 75, 185. V 27, 69. 62, 161). Alla comunità di P. Verre non ha messo le
mani addosso, ma ne ha derubato, ricattato e maltrattato parecchi abitanti
benestanti e stimati: III 40, 93 Diokles, IV 12, 29 Aristus, V 7, 16 segg. Apollonius, 54, 140 C. Servilius civis Romanus. Questi
nomi mostrano che la città era abitata prevalentemente da Greci. Augusto portò
in seguito a P. una colonia romana. Ciò è testimoniato — insieme alla notizia
di Strabone VI 272 Πάνορμος δέ καί Ρωμαίων έχει κατοικίαν
(Plin. n. h. III 90 dice P. erroneamente solo un oppidum) — dalle
iscrizioni CIL X 7279 (consacrazione della COL. AUG. PANHORM. all’imperatore
Alessandro Severo nell’anno 223) e 7286 (COL. PANHORMIT.) e dalle monete n.
742—744 Holm, che mostrano la testa di Augusto, e 743 e 745, quella di Livia.
Tra i funzionari compaiono sulle iscrizioni duoviri 7274. 7275, un curator
calendarii Portensis, detto anche munerarius, 7295, Sex. Pompeius
mercator VIvir Aug(ustalis) 7269, inoltre 7266 consacrazione a Cerere di L.
Corn(elius) Marcellus q(uaestor) pr(o) pr(aetore) prov(inciae)
Sicil(iae) (v. sopra vol. IV p. 1406 n. 262), 7267 consacrazione a Mercurio
di un M. Ulpius pro seviratu; sulla moneta n. 744 i IIviri Cn. Dom(itius) Proc(ulus) e (L)aetor(ius). Nella
quantità di monete coniate in Sicilia non dalle comunità ma da ufficiali
romani, il monogramma ΠAP
sembra alludere al fatto che esse sono state battute a P., v. n. 775. 783. 790. 792. 797. 805.
Questo e il gran numero di monete battute a P. testimoniano dell’agiatezza
della città tanto in epoca romano - repubblicana quanto in quella imperiale.
Che dopo la fondazione della colonia romana prevalesse la popolazione parlante
latino, lo dimostrano le numerose iscrizioni latine a fronte delle poche greche;
si faccia però attenzione all’iscrizione bilingue IG XIV 297
= CIL X 7296 (placca della ditta di uno scalpellino), che però non è stata
trovata a P., v. sotto. Durante l’attacco dei
Vandali alla Sicilia nel 440 P. resistette a un lungo assedio (Hydatius chron.
ad a. 440 p. 23 Mommsen). Del periodo ostrogoto non c’è nulla di speciale su P.
Tuttavia la sua importanza risulta dal fatto che essa fu l’unica città
siciliana che nel 535 oppose ai Bizantini agli ordini di Belisario una
resistenza degna di nota che, per la forza delle fortificazioni terrestri, fu
spezzata dalla superiore flotta bizantina dalla parte del mare (Procop. bell. Goth.
I 5, 12 segg.; v. sotto p. 671, l). Nella corrispondenza di papa Gregorio Magno
P. compare spesso perché dalla cristianizzazione della Sicilia fu sede
vescovile. P. fu tra le prime città siciliane a soccombere già nell’anno 831
all’assalto arabo, però solo dopo un lungo assedio; tuttavia fu portata dai
conquistatori a una brillante ascesa e fatta capitale della Sicilia. P. ha
mantenuto questa posizione anche sotto i Normanni (che la conquistarono nel
1072) e in tutti i successivi periodi storici fino al presente. Iscrizioni,
monete, culti IG
XIV
p. 52—54 classificate sotto il n. 295—310 16 iscrizioni greche la cui gran parte è stata portata a P.
da fuori, in parte nemmeno dalla Sicilia (fra cui anche la più antica, del 295:
una consacrazione di Kleagoras
di
Massalia ad Afrodite), e solo quattro sono state ritrovate proprio a P. Fra di
esse, - insieme all’insignificante iscrizione funeraria 300 (per due
naufraghi), 308 und 309 — solo la 296 è di maggior interesse: l’iscrizione
sullo zoccolo di una statua offerta dal consiglio e dal popolo di P. a Domizio
Latroniano, corrector Siciliane nell’anno 313/14, v. sopra vol. XII p.
980, a cui aggiungere CIL X 7284, l’iscrizione sullo zoccolo di una statua
dedicata all’imperatore Licinio Liciniano, eretta da Latroniano nel 314, dalla
quale si può desumere che il corrector Siciliae allora risiedeva a P.
Fra le numerose altre iscrizioni latine di P. (CIL X 2 p. 751—760 n. 7265-7335, trovate a P. stessa tranne
poche eccezioni)
spiccano l’iscrizione sullo zoccolo di statue imperiali (come la
7284) trovate nel foro e dedicate per la maggior parte dalla comunità di P., in
parte da singoli privati o funzionari: 7270 per M. Aurelio del 163, 7271. 7272. 7274 per Settimio
Severo del 195 e 198, 7273.
7276
per Caracalla del 196 e 198, 7275 per Geta del 199, 7279 per Alessandro Severo del
223, 7281 per il Divo Claudio, 7282 per Diocleziano del 285, 7283 per Galerio
fra il 305 e il 307. Quanto alle iscrizioni di funzionari v. sopra p. 665.
Consacrazione agli dei 7266—7269 per Cerere, Mercurio, Nemesi, Vittoria. Fra le iscrizioni funerarie la
7329 e la 7330 sono databili al 488 e al 602. Le
monete di P. sono trattate da Holm III ai n. 110—113. 468. 469. 612—625. 737—746.
Del V secolo ci sono noti solo quattro tipi, tipicamente greci nelle forme e
con iscrizioni in greco (ΠΑΝΟΡΜΟΣ o abbreviazioni, una volta ΠΑΝΟΡΜΙΤΙΚΟΝ),
come le monete di Mozia all’incirca dello stesso periodo, da cui risulta che
P., come il restante occidente non greco dell’isola, nel V secolo era
esternamente assolutamente ellenizzato. Esse mostrano — a prescindere dalle
immagini di dei da discutere più oltre — una quadriga incoronata da Nike, da
cui possiamo desumere che i casati nobili di P., come i loro contemporanei
greci, praticavano l’allevamento di cavalli e le gare di corsa, il cane che
compare anche sulle monete di Mozia, Erice e Segesta, la conchiglia e la croce
uncinata. Che le monete n. 468 e 469 col monogramma Πα provengano
da P., è molto dubbio. 2 Le
monete d’epoca romana con leggenda greca (n. 612—625) si devono collocare con
tutta probabilità nel periodo antecedente alla fondazione della colonia romana,
quindi prima di Augusto. Esse mostrano, - insieme a dei e ai loro attributi, v.
sotto — una figura femminile ritta con coppa e cornucopia, che si dovrà
intendere, al pari di una testa femminile (talvolta con l’iscrizione ΟΜΟΝΟΙΑ),
probabilmente come la dea cittadina η Πάνορμος
(v. sopra), un guerriero ritto, talvolta con coppa, che rappresenta la potenza
militare della città, una prora, con riferimento alla sua importanza marittima,
e un triangolo (in parte col gorgoneion), che rappresenta la Sicilia. Le monete
con iscrizioni latine, coniate certamente tutte o quasi tutte dopo la
fondazione della colonia romana, aggiungono come emblemi solo timone e ancora. Sui
culti di P. le nostre fonti letterarie non ci dicono nulla. Tuttavia le monete
e anche le iscrizioni ci forniscono qualche informazione al riguardo. In questo
campo si devono ricondurre alla giusta misura le fantasiose combinazioni di
Schubring 15
segg. per altri versi così accorto, il quale (con Ugdulena Sulle monete
punico-sicule, Palermo
1857)
vuole scoprire documenti di un ufficio divino fenicio, laddove uno sguardo
imparziale non può riconoscere nulla di ciò. Questo vale innanzi tutto per
Astarte-Afrodite, che Schubring, con riferimento al frammento di Saffo
recensito sopra, vuole rivendicare come divinità principale dei Panormiti. Ma
la sua immagine appare solo su monete d’epoca romana (n. 625 Holm, sul retro la
sua colomba), l’antica iscrizione votiva per Afrodite IG XIV 295 non è stata
trovata a P. ma importata, e far risalire ad Afrodite la testa femminile su
monete del V secolo (n. 111) è puro arbitrio. Possiamo definirla solo dea
cittadina, senza poter dire se e a quale grande divinità essa era accostata.
Altrimenti le monete attestano per il periodo più antico soltanto Apollo (110),
Poseidone, comprensibilmente di casa in una città di mare (113),
e una divinità fluviale che possiamo chiamare Orethos. Poiché la n. 112 mostra
sul davanti la testa di una giovane divinità fluviale, sul retro la parte
anteriore di un toro con testa umana che nuota, mentre sulla 113 compare un giovinetto seduto su un toro
con testa umana, forse si intendono Orethos e uno dei fiumiciattoli ancora più
piccoli di P. (v. sotto). Gravemente sbagliato è inventarsi dalla testa di
Zeus, che d’altronde compare solo su monete d’epoca romana (n. 615 con fulmine e aquila,
623. 737. 740), un Baal fenicio il cui crudele servizio divino sia stato
convertito per l’influsso greco in quello mite e umano di Zeus. Queste monete
ci dicono piuttosto solo che la P. del periodo dopo il 254, nella quale
probabilmente non c’erano più Punici o, se c’erano, solo in posizione
subordinata, ha avuto come naturale un culto di Zeus che nella colonia romana
di P. si trasformò in seguito in un culto di Giove. — L’Atena delle monete
612—614. 625
b può essere interpretata come Ergane e può ricordare la manifattura tessile,
la cui pratica può essere stata tramandata a P. dai Fenici, e l’allevamento
ovino di P. al quale rimanda il montone delle monete 616. 622. 745. Naturalmente
non possono mancare tra i culti della fertile conca d’oro quelli di Demetra e
di Core coi loro emblemi, le spighe (monete n. 612. 620. 624. 741; 745 Livia
come Demetra; CIL
X 7266 consacrazione del governatore di Sicilia a Cerere). Ermes (619, inoltre
CIL X 7267
consacrazione privata a Mercurio) indica il commercio, i Dioscuri
(621) la navigazione di P. L’ingresso della religione romana è mostrato dalla
testa di Giano sulle n. 616. 625 a. 739; la fondazione della colonia Augusta
Panhormitana e il culto imperiale in essa naturalmente praticato sono indicati
dalle teste di Augusto e di Livia sulle n. 742—745; un VIvir Aug(ustalis)
dedica CIL X 7269
alla
Vittoria un altare, un altro ringrazia 7267 Mercurio pro seviratu;
infine 7268 una consacrazione a Nemesi. Topografia.
Il territorio di P., η Πανορμίτις χώρα,
ora chiamato conca d’oro, è una pianura costiera che racchiude la baia di
Palermo per la larghezza di alcuni chilometri, e che si apre nella sua parte
orientale verso nord e in quella occidentale, dove si trova la città, verso
oriente. La sua estremità orientale è contraddistinta dall’isolato massiccio
roccioso di Monte Catalfano, sulla cui parte orientale si trova Solunto (v.
sotto vol. III A p. 984), alto 375 m., la sua estremità occidentale o nord occidentale dall’ancor
più imponente Monte Pellegrino, alto 600 m. (v. sopra vol. VII p. 2645). Dietro
ad esso la pianura si stende ancora verso nord fino alla gigantesca massa
rocciosa di Capo Gallo,
a ovest della quale si apre poi la baia di Carini. A sud e a ovest la pianura
costiera è circondata dalla Montagna di Palermo, la cui vetta principale a
occidente di P. è il Monte Cuccio (1050 m.) e a sudest il Monte Grifone (777
m.). Fra di essi la pianura si addentra qualche chilometro dopo nei monti da
cui scaturisce il fiume principale della regione, il cui antico nome, Orethos,
conosciamo attraverso Vibius Sequester (Orethus Panormi Siciliae). In
seguito il suo nome medioevale Fiume dell’Ammiraglio è stato recentemente
sostituito da Oreto. La descritta catena montuosa tiene lontani la maggior parte
dei venti dannosi da Πανορμίτις, garantisce alla città un
posto d’ancoraggio particolarmente tranquillo ed è, con il buon terreno e la
copiosa irrigazione, uno dei motivi della straordinaria fertilità del paese. Su
di essa possediamo un’antica testimonianza nelle parole di Kallias riportate da
Athen. XII 542 a έν
ογδόη
των
περί
Αγαθοκλέα
ιστοριων
(FHG II 382, cfr. sopra vol. X p. 1628) η δέ Πανορμίτις της Σικελίας πασα κηπος προσαγορεύεται διά τό πασα ειναι πλήρης δένδρων ημέρων, un
gioco di parole nel quale il paese ‘tutto giardino’ viene
accostato alla città ‘tutto porto’. (Certamente precedeva una frase in cui il
nome P. veniva spiegato come πας
όρμος.) Che queste culture arboree
giungessero fino alle porte della città, ce lo dice Diod. XXIII 18, 4 descrivendo
l’assedio ad opera dei Romani: καταδένδρου γάρ της χώρας μέχρι των πυλων ούσης.
Oltre ad olio, vino e frutta saranno però stati coltivati, a giudicare dalle
spighe sulle monete, anche cereali. Dunque è sbagliato anche a questo riguardo
quello che dice Sil. Ital. XIV
261: fecunda Panhormos, seu silvis sectere feras, seu retibus
aequor verrere, seu caelo libeat traxisse volucrem. Poiché, anche se non dubiteremo che sulle pendici della
montagna di Palermo
fosse praticata la caccia e il mare fornisse un copioso bottino di pesci, e
se la nota sull’uccellagione a P. sembra trovare conferma nelle parole di Plin.
n. h. XVI 172 aucupatoria harundo a Panhormo laudatissima,
tuttavia la ricchezza di P. non era fondata su ciò ma sulla coltivazione del
terreno. L’irrigazione di Πανορμίτις non è assicurata solo dal
fiume Oreto, ma
—
a prescindere dal fiume Eleutheros menzionato solo in Tolom. III 4, 3,
l’odierno Ficarazzi, la cui foce si trova nella parte orientale della pianura
costiera e che forse apparteneva non al territorio di P. ma a quello di Solunto
— da un gran
numero di sorgenti e ruscelli i cui antichi nomi non ci sono noti;
enumerazione e descrizione in Schubring 6 segg. Negli antichi geografi si trovano le seguenti indicazioni
delle distanze: Strab. VI 266 35 mp. dal fiume Imera a P., 32 da qui allo Αιγεστέων
εμπόριον
(via marittima); Itin. Ant. 91, 5 16 mp. a Hyccara, 12 mp. a Solunto, 97, 2 24
mp. a Pirama, 18 a Hyccara. Sulla speciale topografia della città di P. sapremmo molto
poco se disponessimo solo delle fonti greco – romane. L’osservazione di Diodoro
XXII 10, 4, che la città di P. aveva il porto più bello della Sicilia dal quale
essa ricevette anche il suo nome (τήν Πανορμιτων πόλιν, έχουσαν
λιμένα
κάλλιστον των κατά Σικελίαν, αφ’
ου καί
τήν
πόλιν
συμβέβηκε
τετευχέναι
ταύτης της προσηγορίας) sembra incomprensibile se
si considera la posizione della moderna Palermo, il cui porto è
ricavato artificialmente da due moli, quello a nord costruito intorno alla metà
del XV secolo, quello a sud solo alla fine del XIX, mentre il piccolo bacino
naturale della Cala, che oggi è poco profondo e forma una piccola parte del
porto odierno, non è assolutamente degno delle lodi di Diodoro anche secondo
concetti antichi. Naturalmente possiamo farcene ben poco, in queste
circostanze, anche delle indicazioni di Polibio, Diodoro e Zonara sulla città
nuova e la città vecchia di P. Qui ci vengono in aiuto le fonti storiche
medioevali fra le quali spicca la descrizione della città del commerciante e
viaggiatore arabo Ibn Hawqal dell’anno 977 compresa nelle sue annotazioni fatte
cinque anni prima e pubblicate per primo da M. Amari nel Journal Asiatique, IV.
sér. tom. V (1845) 94 seg. e Arch. stor. Ital.,
append. XVI (1847) 22. Secondo questa descrizione la città araba di Balarm –
per Ibn Hawqal la più famosa e popolata della Sicilia — comprendeva allora
cinque quartieri, soltanto due dei quali però erano circondati da mura, gli
altri erano sobborghi aperti. Al primo posto egli nomina Al-Qasr, ‘la fortezza’
— il nome si è mantenuto come il Cassaro — e descrive la sua posizione e le sue nove porte
così da non lasciare alcun dubbio sul loro punto d’inizio topografico, tanto
più che alcune delle porte sono state abbattute solo nel XV e XVI secolo, le
mura sono sparite solo nel XIX e sono ancora presenti diversi ricordi o resti.
In seguito Al-Qasr formò il centro di tutta la città araba che nel suo
perimetro corrispondeva già all’incirca alla successiva città normanno ispanica
e si estendeva a forma di ellisse da ambo i lati della grande via principale
Corso Vittorio
Emanuele (precedentemente Via Marmorea) pressappoco dalla chiesa di S. Antonio
a oriente fino a Piazza dell’Indipendenza a occidente. Il muro settentrionale
correva all’incirca in direzione delle odierne strade Corso Alberto
Amedeo—Piazza Domenico
Peranni—Via
Quaranta Martiri—Saponari—Candelai- Piazza Nuova—Via Formani, il muro
meridionale in direzione Via Porta del
Castro—Ponticello—Calderai—Schiopettieri. Nei bassopiani contrassegnati da
queste strade scorrevano ruscelli, a nord il Fiume del Papireto, così chiamato
da uno stagno con papiri nella zona dell’odierna Piazza Domenico Peranni, dalla quale si diparte la Via
del Papireto, e a sud un ruscello più piccolo che portava acqua solo in
inverno, chiamato perciò flumen hiemale, fiume di mal tempo
(malamente tradotto da Schubring 7 come ‘fiume del cattivo tempo’), del resto
menzionato nelle fonti solo dalla fine del XII secolo. — La seconda parte
cittadina fortificata al tempo di Ibn Hawqals le cui mura non erano però così
alte come quelle di Al-Qasr, era Al-Hâlisah, ‘l’eletta’, eretta nel 937
come fortezza d’avvistamento contro la città più volte ribelle e chiamata nelle
fonti greche e latine Χάλεσα,
Calcia, Halcia, Kalsa. Poiché la cerchia muraria è completamente sparita – già
abbastanza presto in rapporto alla costruzione del grande anello fortificato
arabo normanno - non è possibile indicare con sufficiente esattezza la
delimitazione di questo quartiere; tuttavia sembra sicuro che esso si trovasse
a est del Cassaro e a nord di una linea contrassegnata da Piazza della Kalsa e
Piazza Magione. In questa linea si trova anche la Piazza della Vittoria con la
piccola chiesa omonima, eretta in memoria del fatto che nell’anno 1072 Roberto
Guiscardo fece per primo irruzione nella Kalsa attraverso la porta là esistente
e poco dopo conquistò tutta la città (Amari III² 128 segg.). D’altra parte la
Kalsa giungeva a nord probabilmente fino al porto. I confini indicati da
Schubring 35 segg. (cfr. la sua carta) sono del tutto arbitrari, ma anche
quelli di Columba sono incerti. Degli altri tre quartieri descritti da Ibn
Hawqal si può qui non tener conto perché si tratta chiaramente di sobborghi
aperti, sorti solo in epoca araba, che sono fuori discussione per i problemi
della topografia di P. antica. Per quanto riguarda il porto, dopo la definizione della
porta orientale del Cassaro presso S. Antonio come Bâb-al-Bahr ‘porta del mare’
e dopo la descrizione in Procopio della conquista di P. per opera di Belisario,
- le navi penetrano nel porto che giunge fino alle fortificazioni ma è posto al
di fuori delle stesse e dall’alto dei loro alberi ricoprono le mura di
proiettili – è chiarissimo che esso nel VI e ancora nel X secolo raggiungeva il
Cassaro. Solo nel XV secolo l’insabbiamento era tanto progredito, che si rese
necessaria la creazione di un nuovo porto con la costruzione (iniziata nel
1445) del molo settentrionale. Secondo i comuni rapporti di quota (v. le curve
orizzontali sulla carta allegata presa dal lavoro di Columba) l’odierna Cala
deve poi a quell’epoca aver ricoperto l’odierna Piazza Marina (Giardino
Garibaldi) e l’area adiacente a ovest e nord ovest ed essersi estesa a nord e a
sud intorno all’estremità orientale della città vecchia. Ciò produsse un vasto
bacino portuale che ben meritava il nome πάνορμος e
poteva offrire spazio e protezione a intere flotte antiche, tanto più che, a giudicare
dalla struttura del terreno, l’ingresso non può essere stato
molto più largo di quello dell’odierna Cala. Su quanto però i due bracci del
porto si estendessero nell’antichità a nord e a sud della città, si è discusso
a lungo senza poter arrivare ancor oggi, per la natura dell’oggetto, a una
conclusione precisa che potrebbe essere raggiunta solo attraverso un’estesa
indagine del terreno, impossibile in un’area quasi totalmente sopraedificata.
Fazello racconta di una tradizione ancor viva al suo tempo (cioè intorno alla
metà del XVI secolo) secondo la quale il porto a nord del Cassaro giungeva fino
al Papireto.
Conseguentemente, si dedusse che anche l’avvallamento a sud del Cassaro, il
letto del fiume di mal tempo, dovesse essere in gran parte colmo di acqua marina e
quindi il porto. Nacquero così nel XVII secolo le piante cittadine di
Valguarnera Discorso
dell’origine ed antichità di Palermo, Palermo 1614, e di Inveges Palermo antico, Palermo
1649 (entrambe riprodotte in Di Giovanni II, ultima carta), sulle quali
l’antica P. compare come penisola, in Inveges in modo tale che a nord e a sud
bracci di mare di alcune centinaia di metri di larghezza si spingono nel territorio
ancora oltre l’estremità occidentale della città, mentre Valguarnera
si era accontentato di dare al porto settentrionale all’incirca la lunghezza
della città e a quello meridionale metà lunghezza della stessa. Fu seguito
all’incirca da Morso 216 seg. (cfr. la sua carta), mentre Amari e d’accordo con
lui Schubring
cancellano il porto meridionale ma mantengono quello settentrionale, almeno per
l’epoca greco - romana, approssimativamente nell’estensione che gli
aveva dato Inveges. Holm Arch.
stor. Sicil. IV (1879) 416 segg. (cfr. Gesch. Sic. III 350),
che Di Giovanni segue nell’essenziale con la sua dettagliata trattazione I 167
segg., ha
corretto in alcuni punti la delimitazione dei confini del bacino portuale
anteriore fatta da Schubring, ma per il tutto si è attenuto al suo quadro. Solo
Columba ha potuto fondare la sua carta (qui riprodotta) su un preciso
rilevamento di livello (la cui indispensabilità per un’indagine topografica
approfondita del terreno cittadino è stata fortemente evidenziata da Holm). In
base all’accertamento che le galere di Belisario nell’anno 535 devono essere
state su una linea che oggi si trova circa 6 metri sul mare, e che da lì il
mare nel XIII secolo era indietreggiato di circa 300 metri fino all’odierna
curva d’altezza di 2 metri, egli giunge alla conclusione che nel III secolo
a.C. il mare arrivava fino circa all’odierna linea d’altezza 8, il braccio di
mare settentrionale fino circa alla Via Macqueda e che il lato meridionale del
Cassaro non era stato raggiunto dall’acqua. Tuttavia Columba è ben consapevole
dell’incertezza di questo calcolo, perché non possiamo sapere se il processo di
insabbiamento si è compiuto regolarmente nel corso dei secoli o altri fattori
abbiano concorso a incrementarlo o ad arrestarlo. Una cosa è però chiara, vale
a dire che le immaginazioni sfrenate degli antichi studiosi abbisognano di una
decisa limitazione, e in ogni modo il porto, così come lo immagina Columba,
basta assolutamente alla comprensione di tutte le antiche indicazioni
topografiche. (In epoca antichissima, quando i Fenici posero il loro primo
insediamento, quindi intorno al 1000 a.C., il mare deve però essere arrivato
fino al Papireto e alla città vecchia [v. sotto], perché è molto difficile che
quei trafficanti, i quali secondo Thuk. VI 2, 6 άκρας τε επί τη θαλάσση απολαβόντες καί τά επικείμενα νησίδια εμπορίας ένεκα τής πρός τούς Σικελούς [ώκουν],
si
siano insediati in questo caso più di un mezzo chilometro verso l’interno.) Non meno discusso è il problema di dove si debbano
collocare la città vecchia e quella nuova di P. Poiché nelle fonti arabe il
Cassaro è stato spesso chiamato ‘il vecchio Qasr’ o ‘la vecchia città’
contrariamente alla ‘città nuova’, la Kalsa, si è anticamente equiparata la παλαιά
πόλις di
Polibio (αρχαία
π. Diod.,
άκρα
Zonar., v. sopra p. 663) con il Cassaro, la νέα (εκτός, κάτω) πόλις
con i quartieri a sud ad esso adiacenti, senza tentare di determinare più
esattamente i confini o identificandoli semplicemente più o meno con tutta la
parte meridionale di Palermo, chiusa dalle mura arabo normanne. Così già
Fazello De rebus Siculis I 8 p. 179. 182. Contro ciò fece resistenza già
Schubring 19 seg. Egli pensa che le punte delle due penisole a nord e a sud
dell’apertura del porto fossero protette da fortificazioni che dominavano
l’ingresso e che la Neapolis fosse sulla penisola meridionale, separata quindi
dalla città vecchia da più di un mezzo chilometro. Egli si raffigura l’assedio
romano del 254 in modo che la linea d’assedio nominata da Diodoro ‘da mare a
mare’ valesse solo per la Neapolis e a sud di questa conducesse dal porto al
mare esterno, e che la città vecchia non fosse affatto stata assalita. Contro
questa idea Holm III 348 seg. ha mosso fondate obiezioni. Dalla circostanza che
la città vecchia poté reggersi ancora dopo la caduta della città nuova
risulterebbe per lui soltanto che entrambe erano separate tra loro da un muro,
ma non spazialmente; se fosse stato al contrario, sarebbe stato impossibile
quello che racconta Diodoro, e cioè che i difensori della città nuova sopravvissuti
si misero in salvo nella città vecchia, se quella nuova fosse sbarrata dalla
parte di terra e il porto, situato fra le due parti di città, fosse dominato
dalla flotta romana. Questo racconto ci costringerebbe piuttosto a concludere
che città vecchia e nuova si congiungevano l’una con l’altra almeno per un
tratto. Del resto anche l’ipotesi che solo la città nuova fosse stata assalita
e circondata (con una trincea lunga non più di alcune centinaia di metri!)
sarebbe inconciliabile con tutta la descrizione di Diodoro (e anche di Polibio)
che evidentemente non perde d’occhio l’intera città e le importanti operazioni
d’assedio. (C’è da aggiungere che, come dimostra il facile ingresso nel porto
della flotta romana e in seguito di Belisario, nella parte settentrionale di
esso non vi sono mai state anticamente fortificazioni; il fortino Castellammare
[demolito in epoca moderna] era stato costruito solo nel X/XI secolo). Dopo
tutte queste considerazioni Holm giunge alla conclusione che la città nuova a sud,
accanto alla città vecchia, penetrava a ovest per lungo tratto nel territorio
perlomeno fino alla zona dell’università e della Casa professa, e che il
ruscello che la separava dalla città vecchia, il fiume di mal tempo, era cinto
da due muri, quello della città vecchia a nord e quello della città nuova a
sud; ma egli ritiene anche possibile, insieme a Di Giovanni I 63, una più ampia
espansione della città nuova fino al confine occidentale dell’odierna città.
Ora, poiché nulla parla a favore di un allargamento della città verso sud oltre
il fiume di mal tempo prima del periodo arabo, Columba 414 segg. — che, come Holm, rigetta a ragione le
combinazioni di Schubring — ha formulato la tesi che la città nuova sia da
cercare non all’esterno, ma all’interno del Cassaro. Per quanto ciò suoni
sorprendente, tuttavia si deve riconoscere che non si può avanzare nessun
argomento convincente contro questa tesi e che gli assedi del 254 a.C. e 535
d.C. diventano con questa ipotesi senz’altro comprensibili. Naturalmente la
parte orientale del Cassaro, che arrivava fin giù al mare ed era comunque
circondata da esso per una parte, era la ‘nuova’, ‘l’esterna’ o la ‘città
bassa’, la parte occidentale situata verso l’interno la ‘città vecchia’ o άκρα.
La ‘torre sul mare’, dopo la cui caduta, come racconta Polibio, la città nuova
venne presa dai Romani, potrebbe essere stata al posto dell’omonimo
Bâb-al-Bahr. Un διατείχισμα,
anticamente il muro orientale della città vecchia, separava questa dalla città
nuova che le era collocata davanti in direzione del mare. Dopo la sua caduta la
città vecchia, nella quale si erano rifugiati i difensori attraverso il διατείχισμα,
non era ancora a sua volta presa ma seriamente minacciata (εκινδύνευσε
Polyb.), e dopo l’affollamento di tutta la popolazione nello spazio ristretto
della città vecchia si giunse alla carestia che, secondo Zonara, provocò la
capitolazione. — La superficie del Cassaro con i suoi 43 ha non è tanto
limitata che
sia necessario, con Beloch e Columba (v. sopra), calcolarvi una popolazione
di non più di 30000 persone. Se — come è certamente ovvio supporre — questa
città fenicia conteneva molte case alte come il suo insediamento fratello di
Mozia (del resto all’incirca della stessa grandezza quanto a spazio, v. sopra
vol. XVI p. 397), poteva benissimo dare alloggio anche a un numero
considerevolmente maggiore di abitanti. (Cfr. Holm Arch.
stor. Sicil. IV [1879] 416, che confronta la superficie del Cassaro con quella
di altre città siciliane). Columba è riuscito a stabilire con sufficiente sicurezza
anche il confine della città vecchia e nuova. Nel XII-XV secolo la parte
occidentale del Cassaro si chiamava Galca, storpiato dall’arabo Halqah, cerchia, confine
murario. Fazello I 8 p. l73 indica i suoi confini: a nord, ovest e sud erano
quelli del Cassaro, a est un muro, che correva lungo la parte orientale della
odierna Piazza Vittoria (Giardino Bonanno). Parti di esso vennero alla luce durante
costruzioni stradali nel 1904 ma furono ricoperte. Poiché le case romane
portate alla luce nel 1869 e nel 1904 sono orientate nello stesso senso, è
altamente probabile che il muro orientale della Galca fosse antico e
nient’altro che il muro di separazione fra città vecchia e città nuova, il
vecchio muro orientale della παλαιά
πόλις. Il
nome άκρα
che le dà Zonaras
si capisce facilmente, poiché la Galca si trova sensibilmente più in alto della
città nuova digradante verso il mare. Anche qui all’inizio si resta sorpresi
per la piccolezza della superficie: non più di 10 ha. Ma se si considera che si
tratta del più antico insediamento fenicio, una delle molte filiali commerciali
che prima dell’arrivo dei Greci, secondo Tucidide, facevano corona intorno
all’isola, e senza ancora l’importanza che P. acquisì solo quando divenne una
delle tre fortezze nelle quali i Fenici si ritirarono davanti alla affluenza
dei coloni greci,
allora questo dubbio cade. (Del resto questa superficie
corrisponde abbastanza esattamente a quella della Roma più antica,
all’insediamento sul colle Palatino, v.) Ora però è molto ovvio mettere in
relazione la fondazione della città nuova con la concentrazione fenicia
nell’ovest della Sicilia e collocarla intorno alla metà del VII secolo, quando
i Greci si stabilirono a Imera.. Abbiamo potuto osservare una crescita simile
anche nell’insediamento originariamente modesto di Mozia, v. sopra vol. XVI p.
405. Questa ipotesi ha certamente più credibilità dell’idea di Columba 424, che
cioè la nascita della città nuova sia dovuta per una parte all’afflusso di
elementi greci, v. sopra. Resti antichi. Che la fertile Conca d’oro
e specialmente anche il territorio cittadino di P. fosse colonizzato ancor
prima dell’insediamento dei Fenici, lo dimostrano le tombe preistoriche portate
alla luce presso Boccadifalco (a occidente di P.) e in città sulla Via di Roma
e presso la Stazione
del
porto, v. Not. d. scav. 1928, 489. 1931, 395. 1935, 202. Tombe fenicie, e in
particolare tombe d’incenerimento e d’inumazione frammischiate, contenenti per
lo più solo ceramica grossolana, sono state trovate in gran numero sulle strade
per Monreale e Torrazzi, a sud ovest della città, v. Not. d. scav. 1887, 428.
1895, 216.
1928, 482 segg. I più raffinati sarcofagi fenicio – greci nel museo di Palermo provengono da un
insediamento fenicio mai menzionato in fonti antiche sul Pizzo
Cannita sul ruscello Ficarazzi (l’antico Eleutheros, v.
sopra). Della città fenicia di P. non si è conservato nulla, né dell’epoca più
antica né di quella in cui essa era sicuramente ellenizzata nelle forme esterne
come le monete. Non del tutto irrilevanti sono però i resti d’epoca romana,
innanzitutto nella Galca. Nella sua parte orientale, al di sotto del Palazzo
Reale e in parte poi sovrastati da esso, c’erano fino alla metà del XVI secolo
importanti resti di un impianto architettonico pavimentato con lastre di marmo,
che si chiamava Sala o Sala verde ed era così grande da essere usato per
assemblee e giochi. Dopo che molto materiale, nonostante diversi tentativi di
conservare la costruzione, era già stato rimosso, essa fu completamente
demolita nel periodo 1547—1554 e le pietre usate per la costruzione delle mura
cittadine. Antichi scrittori locali erano soliti chiamare teatro la
costruzione, ma secondo le descrizioni conservateci non si può parlare di ciò;
si tratta invece chiaramente del foro della colonia Augusta Panhormitana
circondata da edifici (curia, basilica?). La maggior parte delle iscrizioni,
specialmente le basi delle statue, sono state trovate là. Approfondita
trattazione di tutte le notizie sulla Sala in Di Giovanni I 371 segg. — A est della Sala verde sono
stati scoperti sotto la Piazza Vittoria (Giardino Bonanno) negli anni 1869 e
1904 le fondamenta di due case romane i cui pavimenti a mosaico (fra
i quali il grande mosaico di Orfeo con numerosi animali) sono stati portati nel
museo di Palermo, v. Heydemann Arch. Zeit.
1869, 38 segg. Förster Bull. d. Inst. 1870, 8 segg. Aubé Description des restes d’un édifice antique à Palerme, Paris 1872 Overbeck Ber. Sächs. Ges. Wiss. XXV (1875) 91 segg. Salinas Not. d. scav. 1904, 458. Un altro mosaico
si trovava in una casa romana che era situata sulla Via Macqueda non lontano
dai Quattro Cantoni (l’incrocio di questa strada con il Corso Vittorio
Emanuele). La casa romana con pavimento riscaldato, le cui fondamenta vennero
alla luce nel XVIII secolo a sud della Villa Giulia, era situata molto al di
fuori della città di P. — Da ricordare ancora le tombe sotterranee che si
trovano sotto la chiesa di S. Michele Arcangelo e per una grande estensione
fuori dalla città. Esse assomigliano alle catacombe di Siracusa, certamente più
importanti. Sono in parte stanze rotonde, in parte lunghi corridoi, illuminati
da rotondi cortili a lucernario, contenenti i letti mortuari in lunghe file.
L’opinione più antica che questi impianti risalgano all’epoca fenicia, ha poco
valore, sebbene non si possa sapere se i primi cristiani, che senza dubbio le
usavano, le hanno costruite ex novo o hanno trovato e ampliato qualcosa del
genere d’epoca più antica. Cfr.
Schubring 22. Di Giovanni II 133 segg. (con alcune piante e schizzi). Holm III
267. 492 con
bibliografia più antica. Salvadore Morso Descrizione di Palermo antico, Palermo
1827. J. Schubring Der historischen
Topographie von Panormus erster Teil, Progr. Lübeck 1870 (seconda parte non
comparsa). A. Holm Gesch. Siciliens im Altertum I
372. III
248 segg. 348 segg.; Studii di storia Palermitana, Arch. stor. Sicil. IV (1879)
412 segg. Vincenzo
Di Giovanni La Topografia antica di Palermo dal secolo X al XV, 2 voll. Palermo 1889. 1890. Freeman-Lupus Gesch. Siciliens
I 215 segg. G. M. Columba Per la topografia antica di Palermo, Centenario della
nascita di
Michele Amari, Palermo 1910, II 395 segg. M. Amari Storia dei Musulmani di Sicilia I² 1933. II²
1935. III l², 1937. — La Lumia Palermo, Palermo 1875, a me inaccessibile. [Konrat Ziegler] 1
Che nel frammento di Saffo 7 Diehl η σε Κύπρις η Πάφος η Πάνορμοσ si intenda la P. siciliana,
mi sembra molto dubbio sia per motivi generali, sia perché le nostre fonti non
ci comunicano in nessun luogo alcunché su un notevole culto di Afrodite a P. e
la sua immagine compare solo su una moneta d’epoca romana (n. 625 Holm). E’
sicuramente l’Afrodite della non lontana Erice il cui culto fu assunto a P. 2 Mi sia permesso solo un breve accenno al
difficile problema delle monete con l’iscrizione punica ZIZ, trattato
da Holm III al n. 279 —298, pp. 645—651, dove è elencata anche la bibliografia
più vecchia. Quindi sembra certo che una parte delle monete con ZIZ —
cioè quelle che mostrano lo Z1Z e inoltre la leggenda ΠANΟΡΜΟΣ — sia stata coniata a P., che però in nessun caso tutte
le monete con ZIZ possono come tali essere considerate di P. e che
innanzi tutto ZIZ non può essere considerato l’antico nome fenicio di P., come
hanno creduto diversi studiosi, poiché numerose monete, coniate certamente in
altre città della Sicilia occidentale, mostrano egualmente lo ZIZ.
Altrettanto errata è l’idea, prima sostenuta più volte, che le iscrizioni
puniche kartchadsat, machanat (o ammachanat o
schammachanat), mechasbim su una serie di monete (Holm n. 267—276) indichino la
città come luogo di coniazione. |