Meneghin: la maschera milanese
da "Il Carnevale Meneghino e Carlo Maria Maggi" di Vitantonio Palmisano
La vita che conduceva gran parte degli italiani nel XVIII° secolo era solitamente austera, ma in certi momenti dell'anno si faceva più lieta, specie durante il carnevale. Con altre più serie ricorrenze si offriva la possibilità di soddisfare quel gusto della scenografia nei cortei o nelle processioni interminabili e pompose alle quali erano di pretesto l'insediamento di Un nuovo cardinale, la visita di un grande personaggio o la sua morte, oltre ad un'infinità di altre ricorrenze religiose. Il carnevale milanese prevedeva una mascherata molto particolare, che aveva per protagonisti i membri di una delle innumerevoli accademie che pullulavano in Italia, quella dei Facchini della Valle del Blenio, formata da artisti e gentiluomini completamente estranei alla professione da cui prendevano il nome. In realtà gli abitanti della valle del Blenio abitualmente scendevano numerosi dalle loro montagne a Milano per fare davvero i facchini. Le maschere dei facchini partecipavano, quindi, in abiti di panno grigio e cappello dello stesso colore con un grande pennacchio, e alla cintura si annodavano un grembiule ricamato d'oro e d'argento con gli emblemi di ogni categoria di facchini. Un sacco sulle spalle e una maschera sul viso completavano poi il travestimento. La stirpe ambrosiana però ebbe a prediligere la sua identificazione nella maschera di "Meneghino", ritenuta da alcuni una creazione di Carlo Maria Maggi. Il Maggi nacque a Milano il 3 maggio 1630 e lì morì il 22 aprile 1699 lasciando pubblicati 626 sonetti, 189 canzoni. 140 componimenti, 8 melodrammi per musica, 5 tragedie, 86 prologhi, intermezzi e frammenti drammatici, 286 componimenti latini, 122 traduzioni italiane dal greco, 7 canzoni in lingua spagnola, 44 componimenti diversi in dialetto milanese e 5 commedie italiane con parlate milanesi di quel Meneghino ch'egli fu il primo ad introdurre nel teatro e nella letteratura dialettale lombarda. Quanto all'origine dei nome, si fanno diverse ipotesi di cui la più persuasiva è quella che vorrebbe far risalire il nome Meneghino da un adattamento di "Domenichino" o meglio un'aferesi di Domenichino. Domenichino era attribuito a quel servo che veniva ingaggiato solo per i servizi domenicali; era infatti uso frequente dei milanesi, per ostentare dovizia di personale nel giorno delle visite e dei ricevimenti, assumere per la sola domenica un servo. Meneghin era quindi un servo di gente mediocremente provveduta e ambiziosa: ne abbiamo riscontro nel ruolo divertente del Meneghin biroeu di ex monegh di Carlo Porta. Altre ipotesi riconducono a Meneghino quale diminutivo di Domenico (Menico, Menechino); indicando in Domenico il nome che un tempo sarebbe stato proverbiale per i servitori: non molto diverso quindi dall'odierno Battista. L'origine del nome di questa "maschera", anzi di questo tipo umano, è quindi attribuita al Maggi: egli ne ha fatto un servo ora sciocco, ora accorto, mai furbo, devoto ai padroni, servizievole, virtuoso, che fa il suo dovere, dà consigli di prudenza, o si lascia infinocchiare per dabbenaggine, sempre però simpatico e di animo generoso. Fatto sta che Meneghino, da personaggio principale del teatro dialettale milanese, affiancato in un secondo tempo alla compagna Cecca, si trasforma in tipico rappresentante dell'anima popolare milanese. Anche il cognome di Meneghino Pecenna ha origini dibattute: derivato quasi certamente dal verbo milanese peccenà affine a pettenà e significante, appunto, "pettinare". Sicchè Meneghino sarebbe per antonomasia "colui che pettina". Ma resta poi da stabilire Se il verbo vada inteso in senso proprio, e allora alle funzioni dei servo si aggiungerebbero quelle, e non sappiamo perchè, del parrucchiere, oppure si tratti di pettinature figurate: cioè, rabbuffi, prediche mordaci, esplosioni di indignata ironia. E in questo caso, più accettabile, avremo l'idea programmatica di una creatura pronta al sarcasmo, alla satira didattica. Non ci rimane ora che parlare del "carnevale" come divertimento popolare, anche se mi rendo conto che non è più possibile fare confronti tra il carnevale di un tempo, seppur non molto distante da noi, e quello di oggi: sarebbe un errore grossolano cercare dei confronti. Oggi il carnevale è diventato una festa come tutte le altre; nei tempi passati era una delle feste più caratteristiche, rumorose, nella quale la gente dava libero sfogo alla sfrenata passione per il divertimento e l'allegria. Ho cercato di raccogliere frammenti e storia di tutte quelle feste tradizionali che andavano sotto il nome di carnevale, mettendo insieme quel poco che ci è rimasto al fine di conservarle e non perderne la memoria. Un tempo, relativamente lontano, il passaggio dalla stagione invernale a quella primaverile transitava attraverso il carnevale e ciò determinava, in un certo senso, la cancellazione dei mali e delle privazioni della brutta stagione e nel medesimo tempo il rifiorire delle speranze per il rinascere della primavera. Per liberarsi delle vecchie angustie ed appropriarsi di nuove speranze si usava bruciare il carnevale sull'aia o sulla piazza principale del paese: un carnevale fatto di stracci e riempito di foglie secche di granoturco che veniva issato su una catasta di foglie e di legna; veniva quindi dato fuoco mentre la folla ballava intorno cantando una filastrocca bene augurante. Sempre a carnevale, ultimo giorno dedicato all'allegria ed alla spensieratezza, in Val Padana si usava altresì rompere le pentole di terracotta sulla piazza del paese. Le pentole, che erano riempite di dolci e regali, una volta rotte da un giovane armato di bastone e con gli occhi bendati, lasciavano cadere a terra tutto il loro contenuto: ogni persona poteva rompere una sola pentola e se il contenuto era fatto di cose buone anche l'anno le sarebbe stato propizio, ma se conteneva cenere o carbone, l'anno sarebbe stato sicuramente non dei più felici. Per divertirsi poi nei giorni dei carnevale i nostri avi erano disposti ad impegnarsi anche economicamente con un oggetto di valore o altro pur di comperarsi un vestito da pagliaccio o per partecipare , a pieno titolo, ad una cena o una serata di ballo mascherato sulla pubblica piazza, diventando almeno per una volta in un anno protagonisti. cancellando così. per pochi giorni, i restanti periodi di sofferenze e di umiliazioni. Era altresì uso effettuare anche il pranzo di carnevale che doveva essere necessariamente a base di salumi, faticosamente salvati dall'inverno appena trascorso. Si pensava anche che a carnevale i "morti si facevano vivi" o meglio si credeva essere certa la presenza dei morti nelle campagne lombarde proprio al fine di stare vicini ai parenti in un periodo di gioie e di allegria; una metafora per liberare i viventi in modo definitivo e sicuro dalle mortificazioni e patimenti dell'inverno. Il carnevale infine era, nei secoli passati l'ultima opportunità di abbondanti mangiate e bevute preludio di un periodo di digiuno pre-primavera cioè prima della lunga astinenza quaresimale proprio forse per renderla meno insopportabile.
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