Ci troviamo davanti a dodici affreschi che narrano gli avvenimenti
riguardanti l’eroe greco Enea quando dopo la distruzione di Troia partì
con alcune navi e molti compagni di sventura in cerca di nuove terre.
Gli affreschi si presentano in buon stato di conservazione, di buona esecuzione,
e sono intercalati con motivi architettonici e putti di raffinata fattura.
Per la spiegazione partiamo dall’affresco di centro di una parete e che
raffigura una nave sulla quale vi è un guerriero, mentre sull’albero
della vela sventola un nastro con la scritta “Post tot discrimina rerum”
che vuol dire: dopo tante pericolose avventure, e che rappresenta il simbolo
della vita di Gian Giacomo Medici: dopo tante
avventure è arrivato a Melegnano, un buon porto sicuro. Sulla
sua destra è Venere, madre di Enea, che parla al figlio e gli dà
le opportune istruzioni. Enea la sta ad ascoltare in devota venerazione.
Virgilio scrive: “Ecco la madre gli si offerse incontro ne’ boschi, con
la faccia e la persona di giovinetta, in armi di spartana ...”. E
seguendo sempre a destra in senso delle lancette dell’orologio troviamo
la figura di un dio che scaglia i fulmini e guida i cavalli assiso su una
grossa conchiglia. E’ Eolo, il re dei venti da lui suscitati terribilmente,
ed essi: “calarono sul mare, e dal profondo lo sconvolgono tutto ed Euro
e Noto ed Africo impregnato di procelle, e spingono a le rive i cavalloni”.
L’affresco che segue rappresenta Giove che, dopo aver ascoltato Venere che
aveva chiesto pietà per il figlio Enea sbattuto dai venti, invia
“il figlio di Maia”, cioè Mercurio a far calmare l’ira di Eolo, il
re dei venti e delle tempeste. Si noti la cornice rotonda che racchiude
la scena con i segni dello zodiaco; il bambino accanto alla madre è
Cupido, l’amorino, e Giove che oltre allo scettro stringe i fulmini.
Segue un affresco di notevole fattura e importanza mitologica: la dea Artemide
che invita il figlio Cupido, l’alato amore, a scendere: “... sorprendere
la regina innanzi vogl’io con arti e cingerla di fiamma, e sia ad Enea stretta
d’amore”. Afrodite campeggia solennemente nell’affresco e sta in trono
sul carro regale, in compagnia di due amorini, uno dei quali regge una palma
e l’altro guida le candide colombe. Il mito di Afrodite oltre che
da Omero è raccontato da Esiodo che la fa nascere dalle spume del
mare nei pressi dell’isola di Cipro. Sospinta dallo Zéfiro,
giunse sulla spiaggia e quivi fu accolta dalle Ore e accompagnata su un
carro di alabastro tirato da bianche colombe alla reggia degli dei.
Ora inizia un’altra parte affrescata. Il soggetto dell’affresco è
Enea che rincuora i suoi compagni dopo la tempesta, dicendo:
“……Voi la scilléa rabbia fin presso a’ clamorosi scogli sfidaste,
conosceste le ciclo pie caverne voi; gli spiriti richiamate e cacciate il
timor mesto; un dì forse questo pur ci sarà grato ricordo”.
questa ultima frase è la traduzione italiana del notissimo verso
di Virgilio, passato anche come proverbio: “forsan et haec olim meminisse
iuvabit”. Ecco ora l’affresco che presenta una donna cacciatrice sulla
sinistra e due uomini in centro e sulla destra. La scena narra il momento
in cui Enea, accompagnato da Acate, si incontra con la madre Venere che
si era travestita da fanciulla spartana. Dice infatti il testo virgiliano:
“Esso sen va, compagno il solo Acate, con due di largo ferro aste tra mano.
Ecco la madre gli si offerse incontro ne’ boschi, con la faccia e la persona
di giovinetta, in armi di spartana, Aveva il docile arco e sparsi al vento
i capelli “. Nell’affresco si notano Enea in centro, il compagno Acate
a destra, e tutti e due con la lancia in mano. A sinistra è la fanciulla
spartana armata di arco, ma è il travestimento di Venere, madre di
Enea, che appare al figlio per rincuorarlo. Il compagno Acate segna
con la mano sinistra il numero tre per indicare che in lontananza si vedono
tre loro compagni scampati dalla tempesta, Anteo, Sergesto e Cloanto.
Il terzo affresco della parete mostra due uomini che stanno ammirando le
sculture sulle pareti. E’ una scena forte nella sua essenzialità.
Si tratta di Enea che è in compagnia dell’amico Acate e che “ammira
degli artefici la mano Ecco vede in ordine le iliache battaglie gli Atridi
e Priamo e fiero a entrambi Achille”. La scena si riferisce alla costruzione
della città di Cartagine da parte del popolo dei Tiri governati da
Didone. Inizia l’ultima parete. Si scorge seduta la regina Didone
sul suo trono. Già aveva ascoltato i compagni di Enea che le
avevano raccontato la tragedia della dispersione sul mare e l’intenzione
di navigare verso l’Italia e verso il Lazio; ed è il momento in cui
Enea e il suo compagno, il fido Acate, escono dalla cortina di nebbia che
li aveva celati fino allora e sono resi visibili ai compagni già
arrivati prima di loro due a Cartagine. Ed è Enea che: “Allora si
volge alla regina e subito imprevisto a tutti parla: Presente, quegli che
cercate, io sono, Enea troiano al libio mar scampato”. Gli amici ritrovati
stanno accanto alla regina e ancora hanno nelle mani le loro lance militari.
Si noti il movimento delle gambe di Enea e di Acate, quasi espressione di
un sentimento di grande consolazione che li porta verso gli amici ritrovati.
L’ultimo affresco della parete mostra la scena del banchetto che la regina
Didone offre in onore agli scampati dai pericoli. E’ la famosa scena in
cui Didone stringe al seno il figlioletto di Enea, Ascanio che in realtà
è Cupido che ha preso le sembianze di Ascanio per volere di Afrodite.
Sul tavolo di artistica fattura stanno i cibi e il calice del vino; attorno
fanno corona alla regina le sue ancelle. La posa del cane in primo piano,
pacifico, sazio, quasi assopito, rende l’atmosfera di tutto il quadro arieggiante
di domestica serenità. Qui il poeta Virgilio si alza ad altissima
poesia: “... di lusso regal si adorna e splende la casa dentro, ed il convito
in mezzo v’apparecchiano: drappi lavorati con arte in prezioso ostro, dovizia
d’argento su le mense …..”. E proseguendo verso destra, come ultimo
affresco della nostra visione, ecco nell’ebbrezza del banchetto sta il suonatore
della lira a nove corde: Il chiomato Iopa tocca la dorata cetra, discepolo
che fu del sommo Atlante”. |