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![]() 10 AMEDEE ACHARD “lettera di corrispondenza del “Journal de Debats” Milano, 9 Giugno 1859 il testo integrale recita: “…Ho lasciato Il Te Deum per correre a Melegnano. È la che il cannone ha rimbombato ieri durante la sera. Non è, come si credeva, il vincitore di Magenta che ha avuto gli onori di questa battaglia; è il Maresciallo Baraguery d’Hilliers. La strada che esce da Milano attraverso Porta Romana corre tra due canali profondi. La pianura è a livello inferiore, tutta tagliata da siepi e da ruscelli, tra i quali un’armata non può dispiegarsi. Il paese è piatto, ma lo sguardo non si spinge a lunga distanza; un sipario di alberi blocca l’orizzonte all’improvviso. La strada dissestata, dopo aver attraversato San Giuliano, incontra il borgo di Melegnano che taglia in due. Un cimitero, circondato da muri, si trova sulla sinistra, nella campagna, sul bordo del canale. Quest’albero bruciato da una palla di cannone, sta ad indicare che la battaglia è cominciata qui, a un tiro di schioppo dal villaggio. Il cimitero era stato trasformato in fortezza. Lungo i due muri che guardano verso la pianura e la strada, gli austriaci avevano fissato tutte le panche di una chiesa e di una locanda vicina. Il profano e il sacro in guerra, sono la stessa cosa. In piedi sulle panche come dei curiosi che assistono ad una festa o come dei bambini che rubano delle albicocche, tiravano a colpo sicuro. Metà del battaglione caricava i fucili, l’altra faceva fuoco. I nostri esploratori morivano senza vedere nessuno. Bisognava espugnare la postazione a passo veloce. Il primo corpo degli zuavi fu scelto per l’attacco. “Uno sforzo coraggioso!” mi disse un sergente la cui guancia era stata sfiorata da una pallottola. Il primo corpo degli zuavi si mosse, baionetta in avanti, e il villaggio fu espugnato. Uscirono ben pochi uomini dal cimitero. L’ho appena attraversato; in un angolo vi è una breccia attraverso la quale solo un piccolo numero di fuggiaschi è potuto scappare. Alcuni contadini scavano due fosse immense i morti erano in uno degli angoli del cimitero, ammucchiati per nazione: dapprima gli Austriaci, poi gli zuavi, i soldati di linea e i cacciatori, tutti colpiti alla testa. Due carri pieni attendevano alla porta. Dietro una cappella, dei soldati facevano la siesta, sdraiati nell’erba. Sulla destra, proseguendo nel borgo, in un campo vicino ad un bivacco dove il 33° di linea faceva bollire le proprie marmitte, cento prigionieri austriaci attendono di essere condotti a Milano. Un giovane luogotenente, al quale un Alsaziano serve da interprete, ci fa sapere che il Generale Rodein, che comandava la sua brigata è stato ucciso. Appartiene, con la sua compagnia che ha deposto le armi, al reggimento principe di Sassonia. Il battaglione con il quale marciava è stato costretto ad arrendersi durante la notte. Inviato in ricognizione verso Melegnano, ha oltrepassato le gran guardie indisturbato, sebbene fosse stato riconosciuto; ma la sentinella, sicura che non vi fossero che un centinaio di uomini, si è introdotta furtivamente, senza essere intravista, verso il bivacco del reggimento, e avvertì il colonnello. Furono prese le armi senza rumore e gli Austriaci si trovarono accerchiati. Vicino al campo nel quale i prigionieri sono rinchiusi, nell’angolo di una siepe che fa ombra ad un ruscello, ha luogo un duello con le baionette. Che ammassamento di morti! Quanti cadaveri ammonticchiati alla rinfusa, i calzoni rossi in mezzo a quelli blu! Si direbbe che nessuno si sia ritirato. Entriamo nel villaggio. La battaglia è proseguita di strada in strada, di casa in casa. Ogni porta era barricata. Le tracce delle pallottole sono ovunque. Tuttavia una giovane fanciulla si pettina e si liscia i capelli dietro a una finestra senza vetri: ha il tempo di sorridere. Lungo le strade, ai piedi delle pietre miliari, sulla soglia delle porte, nei fossati, dietro alle macine, all’angolo delle siepi, nel fango dei ruscelli, ovunque cadaveri con i pantaloni blu, i sacchi in spalla. I sacchi sono vuoti. Ecco la piazza del villaggio dove la battaglia è stata più accanita. Su un lato vi è un grande vecchio castello di mattoni a cui si arriva per una strada dissestata tra due fossi profondi, tutti pieni d’erba; in fila sulla destra, si vedono delle case tra le quali s’apre una volta. È lì che il colonnello Paulze d’Ivoi è stato colpito da due pallottole; è caduto morto stecchito; i suoi soldati lo hanno vendicato. In una strada vicina c’è una chiesa tutta dorata all’interno, triste e povera all’esterno, con delle statue di santi alla porta. Attualmente è un ricovero. I più malconci per la battaglia si trovano lì su un po’ di paglia. Non esce un sospiro da questa oscurità. Vicino al portico dove veglia una sentinella, riempiono un carretto. Questa volta gli Austriaci hanno fatto un attacco con la baionetta. Sono stati accolti come degli scolari. Ho cercato degli amici che ci vengono donati dal caso di un incontro. A Vercelli una sera, a un tavolo di locanda alla locanda dei Tre Re, un gruppo di ufficiali si era unito a noi; essi appartenevano al 1° zuavi. Giovani, allegri,desiderosi di combattimenti, si lamentavano di non aver incontrato il nemico. I loro camerati del 3° avevano avuto questa fortuna e loro ne erano gelosi. La conoscenza si fa presto in tempo di guerra. Si bevve alla salute degli zuavi e promettemmo di rivederci a Milano. Vi erano nove giovani coraggiosi. Ne ho ritrovati quattro stesi morti in una delle sale del castello. Altri due erano gravemente feriti. Ah! Che brividi vi prendono quando si ritrovano pallidi e gelati tutti quei bei giovani che avevate visto così pieni di vita! Accanto a loro, in testa a questo corteo funebre, stava il colonnello Paulze d’Ivoi…In un angolo della sala dei soldati tristi e silenziosi tagliavano e inchiodavano delle bare per i loro capi. I vivi si spogliano delle proprie camicie bianche e delle loro calze nuove per vestire i morti. Sono uscito da questa sala con il cuore spezzato. Ma per quanto terribili siano le scene alle quali si assiste, altre non meno lugubri vi attendono man mano che si procede in queste camminate. Un piccolo ruscello, un ruscello simile a quelli di cui tanti romanzi cantano i mormorii, è tutto disseminato di soldati colpiti da una pallottola o dalla baionetta. L’acqua scorre sopra i morti, e, ingrossata dalla pioggia, cade in cascatelle. Ti allontani con orrore, e altri morti ti aspettano tra i prati. Alle sette, la pioggia, che ieri sferzava il Corso, inonda anche Melegnano. Alle otto, era un acquazzone. Il combattimento durava sempre. Alle nove, è cessato. Le ultime case stavano per essere conquistate. Allora i cannoni della divisione Forey, venendo in aiuto alle divisioni vittoriose Bazaine e Ladmirault, hanno lanciato dei colpi di mitraglia in mezzo alle colonne austriache che si ritiravano verso Lodi. Dai morti che ricoprivano la strada e la campagna dietro al villaggio, era possibile giudicare a cosa avevano portato queste scariche. A Melegnano, come a Magenta, gli Austriaci hanno resistito solidamente, ma a Melegnano come a Magenta, la loro resistenza è stata frantumata come un ramo di quercia colpito da un martello.Sono tornato da questo campo di battaglia col cuore gonfio di ammirazione e pieno di amarezza. I soldati del 33°, del 36°, del 37° e del 10° battaglione di cacciatori a piedi, e altri ancora vorrei ricordarne, mi raccontavano i loro sforzi, le loro lotte, il loro trionfo e le loro perdite. Coloro che vegliavano nel cimitero, l’arma ai piedi, vicino ai loro fratelli già freddi, avevano un’aria grave e pensierosa. Le divisioni Bazaine e Ladmirault hanno pagato il prezzo del sangue. Oggi appartengono al rimpianto; domani i soldati non penseranno che alla vittoria. L’armata è in marcia verso il grande quadrilatero dove gli Austriaci ripiegano e intendono fermarsi; i cannoni di grosso calibro hanno lasciato Genova; i lavori e le operazioni di assedio stanno per cominciare….Là deve terminare la missione che mi è stata affidata. La sorte di Sebastopoli può far prevedere quella di Mantova e Verona. Lungo tutta la strada, in corsa verso Melegnano, ho incontrato carrozze, carri, veicoli di ogni genere inviati dai milanesi per raccogliere i nostri feriti. A metà strada il caso mi ha fatto entrare in una fattoria che avevo scambiato per una locanda e dove stavo andando a prendere un bicchiere d’acqua. Il padrone era a tavola con i propri servitori. Egli si alzò e mi offrì ospitalità. Ero in piena egloga. La tavola era piena di vivande e frutta. Dei bei giovani e delle belle fanciulle mangiavano con aria contenta. La salute risplendeva sui loro volti freschi e scuri. Cento buoi e trecento mucche ruminavano nelle stalle, gli aratri, gli erpici, i gioghi disposti ordinatamente in fila riempivano dei vasti capannoni. Un gruppo di galline erranti e di piccioni razzolavano nei cortili. Ovunque vi era abbondanza, abbondanza e pace. Il padrone aveva l’aria semplice e buona e una certa calma nella fisionomia; i servitori robusti sembravano felici della propria sorte. La guerra passava di fianco alla fattoria senza sfiorarla..(…). 11 AMEDEE ACHARD del “Journal de Debats” lettera di corrispondenza Milano, 10 giugno 1859”..(…).. Il Sig. Cavour arrivato ieri o al mattino, era presente a quest’esplosione di entusiasmo milanese. Gli Austriaci sono a Lodi e lui è a Milano, dove sono in vigore i decreti che lui controfirma. Si dice che sia arrivato anche Garibaldi, ma in incognito portato da un convoglio espresso da Como. Ha voluto conferire con il re sulle nuove operazioni che sta per intraprendere. Sapete che è a Bergamo. Ah Dio! Se i milanesi avessero potuto immaginare la sua presenza, se soprattutto si fosse mostrato in pubblico, che manifestazione! Le mie orecchie ne fremerebbero! Ma la vera manifestazione, quella che ha veramente avuto un tocco commovente e nobile, quella per cui la popolazione ha fatto vedere da quale spirito è animata, ha avuto luogo alle quattro, al momento della passeggiata quotidiana per il Corso. La passeggiata è stata sostituita da un pellegrinaggio a Melegnano. Tutta l’aristocrazia ha inviato i propri equipaggiamenti di lusso sul campo di battaglia per raccogliere i feriti, mentre la municipalità requisiva carri e carrozze per lo stesso scopo. Una lunga fila di calessi e di landò stamani uscì da Porta Romana, guidata da cocchieri in livrea. Ho visto delle dame di Milano saltare in strada, prendere i feriti per le braccia, aiutarli a sedersi sui cuscini e montare coraggiosamente sul sedile di fianco al cocchiere, se non vi era più posto per loro all’interno della carrozza. L’azione era commovente: esse vi aggiungevano uno slancio ed una semplicità che ne aumentava il valore. Vi sono pochi palazzi e poche case a Milano che non abbiano offerto l’ospitalità più amabile e sollecita ai nostri feriti. Abbiamo avuto l’onore che venissero curati come fratelli, e quelli che tornavano dal campo di battaglia hanno potuto credere che le loro famiglie fossero accorse loro incontro. Oggi non si sente il rumore del cannone, anche se non bisogna fidarsi di questo silenzio. Forse è una questione di vento, che soffia da ovest. Approfittiamo di quest’ora di tregua per passeggiare un po’. L’aspetto dei muri, dove sono disposti 20 manifesti, ricorda vagamente i muri di Parigi nel 1848. Che manifesti! E qua e là qualche proclama e altrettanti decreti. La folla si arresta tutt’intorno e forma un ingorgo all’angolo delle strade. Talvolta il manifesto viene letto ad alta voce per informare qualche curioso troppo lontano. A cosa fatta si applaude, accorrono altri curiosi e si passa oltre. È là che è stato insediato il corpo di guardia per la guardia civica. Alcuni cittadini, armati di fucile, passeggiano davanti alla porta, fumando dei sigari con frenesia. Il sigaro dimostra che uno è libero. Voi sapete che, durante la dominazione austriaca, era stabilito che nessuno accendesse una foglia di tabacco, cosa che contrariava il monopolio dell’impero e allo stesso tempo il ministero delle finanze. Oggigiorno il patriottismo esige il contrario. Le guardie nazionali sono ancora in borghese….passatemi l’espressione…. Eppure ho visto un certo numero di caschi. Mi hanno detto che il casco era il chepì dei milanesi; io non lo garantisco. Tra qualche tempo, si troveranno più guardie nazionali di quante non se ne vogliano; bisognerà vedere dopo. Abbiamo conosciuto tanti zelanti che poi si raffreddano … Questa mattina la città aveva ripreso la sua fisionomia di sempre. Sono le cinque del pomeriggio, e non ho ancora sentito un’ovazione. Alcune grandi carrozze cariche di ghiaccio e coperte da stuoie vagavano per le strade di buon ora. Dei caffettieri ambulanti preparavano le loro bevande di cui i soldati di Parigi gustavano la novità. Delle donne di campagna portavano nei panieri dei mucchi di ciliegie come non se ne sono mai visti nei mercati. Ne vengono fatte delle piccole montagne rosse in ogni fruttivendolo. Gli zuavi ne mangiano delle colline, la mattina dopo il caffè. Poco fa vi parlavo del Duomo. Un’armata lo ha visitato oggi. Granatieri, bersaglieri, zuavi, pontieri, cavalleria leggera, volteggiatori, la cavalleria, l’artiglieria, la fanteria, sono saliti all’assalto del campanile. E bisognava vedere come pioveva Il bel cielo d’Italia non risparmia gli acquazzoni da un mese. Non piove così tanto nei paesi in cui solitamente piove! Mai ascensione fu più bagnata. Tutti i soldati guardavano verso l’orizzonte dove si trova Lodi. La vista non arrivava che a Melegnano, dove è scritto che i Francesi si batteranno sempre, gli zuavi a seguito di Francesco I. Ci sono dei nomi che portano fortuna….. Una parola ancora prima di terminare questa lettera, che sarà probabilmente l’ultima della mia troppo lunga corrispondenza. Non conosco abbastanza la Lombardia e Milano per asserire un’opinione; ma se credo a ciò che molte persone mi hanno detto, non vi è nel paese, nella città soprattutto, che un’aristocrazia e un popolo. Tra le due cose, niente. E lo spirito di queste due grandi divisioni non è lo stesso; un po’ oligarchico in alto, un po’ rivoluzionario in basso. In fondo, lo spirito che anima i liberali italiani mi sembra essere sempre lo spirito municipale. Nella penisola vi sono delle città, vi sono degli uomini, vi sono dei soldati; il carattere, il sapere, il coraggio, le migliori e le più alte qualità, non manca nulla. Che a queste virtù individuali che brillano di un fulgore così vivo, gli italiani aggiungano le virtù civiche, la pazienza l’abnegazione, la devozione alla causa nazionale; che la moderazione accompagni il trionfo, e, a queste condizioni, vi sarà un popolo. Quando le armate vittoriose della Francia e del Piemonte avranno affrancato il suolo, l’indipendenza e la grandezza dell’Italia saranno a questo prezzo. Da quando queste poche pagine sono state scritte, si sono verificati degli avvenimenti considerevoli in Italia. La grande e sanguinosa battaglia di Solferino, nell’asserire la superiorità delle nostre armate, indica gloriosamente quale sarà la fine di questa campagna, guidata con una risoluzione e una prontezza di cui la storia offre pochi esempi. Alcuni amici mi hanno voluto domandare perché non ho seguito questa rapida e brillante spedizione fino a Verona; e tra i lettori del Journal de Débats, al quale questa corrispondenza è indirizzata, ne ho trovati alcuni che sembravano rimpiangere che io non l’avessi continuata fino alla pace, siglata da un ultimo trionfo. Mi comprenderete meglio se vorrete leggere queste ultime righe. Un giorno, il 9 giugno, andando a Marignano, dove ieri era stato versato il sangue dei nostri eroici soldati, ho incontrato per strada una barella trasportata da quattro zuavi. Dei rami di albero piegati a bersò facevano ombra per metà al corpo di un ufficiale; era pallido e qua e là si vedevano delle macchie di sangue sul drappo che lo copriva. Dei soldati accompagnavano il corteo silenziosi, pronti a vegliare sui loro camerati. Io salutai l’ufficiale, egli sollevò la testa languido e mi rese il saluto. Un sergente, che marciava vicino al valoroso ferito, mi disse il suo nome. Era il comandante Rousseau. Questo incontro fu come la goccia d’acqua che fa traboccare il vaso. Un’ora dopo, ero in questo terribile villaggio, disseminato di morti e di moribondi, in quel cimitero dove tanti soldati francesi stavano per essere affidati alla terra, davanti a quel castello dove degli ufficiali coraggiosi, sdraiati sul pavimento e che ieri ancora indossavano così valorosamente la spada, attendevano che delle bare preparate in fretta potessero ricevere le loro spoglie mortali. Erano passati pochi giorni da quando le loro mani leali avevano stretto la mia! Allora mi prese un brivido, e un sentimento di cui soffrivo nella parte più intima del mio essere esplose. Chi ero io, là in questo campo di morti? Un curioso, un narratore, quasi un estraneo! L’ora del pericolo era passata, informati dalla voce pubblica che una battaglia è stata portata a termine, si accorre, e, sulla polvere ancora umida, si trovano morti coloro che si erano conosciuti. Le pallottole non sibilano più, il cannone è muto, ogni pericolo è scomparso, e quelli che sono in piedi, tutti animati dalla febbre del combattimento, vi raccontano con semplicità, seduti ai piedi di un albero mutilato, all’ombra di un muro crivellato dal ferro e dal piombo, gli episodi sinistri o commoventi di questo choc, del quale vi sono ovunque le tracce sanguinanti. Allora un rimpianto amaro, cocente, e che nulla placa, vi afferra, si prova come un sentimento di inferiorità che tocca l’umiliazione, al pensiero che si sia percorso a piede libero queste strade e questi campi arati ieri dall’artiglieria, e che i testimoni di queste feste vi circondano e vi guardano, e che era così ieri e che sarà così domani! Vorreste che un caso improbabile vi facesse ospite di un reggimento nell’ora in cui si suona la carica, e vi desse il diritto di prendere un fucile e di correre al fuoco gridando. E anche io mi so battere! Ma l’occasione non arriva mai, e si resta l’inutile testimone di queste battaglie, in cui tanti altri mettono in gioco la propria vita; e il pensiero insopportabile vi perseguita, quello che la guerra che è una terribile realtà per tante migliaia di uomini, non è che uno spettacolo per un piccolo numero di tristi privilegiati. Il cuore si stringe, e non si pensa ad altro che ad allontanarsi il più presto possibile da questi campi di prove dove i pericoli esistono per tutti tranne che per qualcuno. Ecco con quale fardello si parte, e quali impressioni vi spingono ad abbandonare l’armata, ancora felice, o almeno sollevato, se in queste righe effimere, scritte con la penna, si ritrova traccia della simpatia profonda e dell’ammirazione senza pari che si prova per tanta gente coraggiosa, ufficiali e soldati, tra i quali si è avuta la fortuna di vivere per un mese. |
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