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L’entusiasmo che invadeva i milanesi
nell’assistere all’ingresso in città delle vittoriose truppe francesi
(7 giugno), era in noi (lo scrivente, un suo cugino ed un amico) paralizzato
dal pensiero che il paese nostro nativo e le nostre famiglie si trovavano
nelle strette dei soldati austriaci che vi si erano asserragliati a difesa,
e che, dicevasi, avessero altresì requisiti come ostaggi diversi
abitanti. Formato il progetto di recarci a Melegnano per vedere cosa ne
fosse avvenuto dei nostri, ci spingemmo fuori P.Romana (Porta Romana) per
qualche chilometro, ma qui, da taluni che giungevano da quella direzione,
ci venne assicurato che a Melegnano e sue vicinanze, era impedito accostarsi
dai corpi avanzati e dalle vedette che vi tenevano gli austriaci. Essendo
frattanto sopravvenuta la sera, concertammo di tentare qualche altra via
l’indomani. Ritrovatici di buon mattino il giorno 8 a P.Romana, riconoscemmo
assai ardua cosa il mandar ad effetto il nostro divisamento, poiché
la strada era tutta quanta ingombra di truppe e bagagli; era il 1°
corpo d’armata comandato dal generale Baraguey d’Hilliers (divisioni Forey,
Ladmirault, Bazaine), che si avviava alla volta di Melegnano, e, oltre
l’impossibilità di fare speditamente il nostro viaggio, si aggiungeva
a dissuadercene anche il riflesso che avremmo arrischiato di trovarci in
un brutto impiccio con nessun utile per l’armata. Recatici quindi per bastioni
a P.Vittoria, ci dirigemmo per la strada che mette a Linate, tentando di
avvicinarci a Melegnano dalla parte di Mediglia e Colturano. La via era
deserta, e viaggiavamo silenziosi e meditabondi per l’incertezza di ciò
che si sarebbe occorso, quand’ecco, poco prima di Linate, si vede da lungi
un polverio, dal quale esce un rumor di carri e di cavalli, e di quando
in quando un luccicar d’armi. Sorpresi ci fermammo, e si andava conghietturando
cosa mai poteva essere quell’improvvisa apparizione. Che fossero austriaci
era poco probabile, poiché l’ora già avanzata da quando noi
lasciammo il corpo d’armata di Baraguey che usciva da P.Romana, e questi
non avrebbe voluto marciare con un corpo nemico al fianco ed a così
breve distanza. Alla fine però si poterono distinguere i rossi pantaloni
dei soldati francesi, e, dissipatosi in noi ogni timore, ci facemmo coi
nuovi incontrati. Era la seconda divisione Decaen del secondo corpo d’armata
di Mac-Mahon che, avendo preceduto quello di Baraguey sulla strada Romana,
se ne staccò a San Martino, e, per strade secondarie, era qui giunta
e si dirigeva verso Melegnano per la medesima via che intendevamo percorrere
noi pure. Ci trovammo quindi in abbastanza numerosa compagnia, e poiché
molti di quei soldati davano a divedere di essere estremamente stanchi,
ciascuno di noi tre cercò di alleviarene qualcuno col portare a
chi lo zaino, a chi il fucile, facendo fra noi stessi le meraviglie di
trovarci con simili arnesi sulle spalle. Passando in prossimità
del vasto cascinale detto Bettolino di Vigliano, ci venne il pensiero di
invitare alcuni a fare colà una piccola disgressione di qualche
mezzo chilometro onde rifocillarli presso quel fittabile di nostra conoscenza,
signor Felice Roveda. L’invito non cadde a vuoto, poiché una ventina
ci si fecero insieme, e non fu senza la più gran meraviglia che
la signora ci vide entrare con si inaspettata compagnia in casa sua. Una
generosa libazione con qualche cibo giunsero opportunissimi a ristorare
quegli stomachi che erano vuoti da un tempo assai più lungo del
consueto, e l’innata ilarità francese, che era assopita dalla stanchezza
e dal digiuno, ridestatasi di subito, valse a tranquillare pienamente quell’ottima
signora che in sulle prime, e non a torto, avrà dovuto certamente
allarmarsi. Ci dissero quei soldati che venivano direttamente da S.Pietro
all’Olmo, villaggio distante un 12 chilometri da Milano sullo stradale
di Magenta, senza fermata e senza distribuzione di cibo. Vedendo in seguito
come alcuni si assidevano sul margine della strada, assolutamente impossibilitati
a proseguire, pensammo di cercare dei carri onde far condurre almeno per
qualche tratto di strada i più sfiniti, ed entrammo accompagnati
da qualche soldato in un cascinale del paese di Bustighera. Vedemmo nella
corte quei pochi contadini che vi si trovavano chiudersi nelle loro case,
per cui, adocchiato un carro, stavamo facendo ricerca dei cavalli per compiere
la bisogna da noi stessi, quando comparve il fittabile, che per caso, era
una nostra buona conoscenza, cioè il signor Melchiorre Bergomi ora
usciere presso il Tribunale civile e correzionale di Milano. Alla nostra
richiesta, fatta forse con modi un po’ bruschi, giustamente ei si risetì
sulle prime, ma poi ci fornì l’occorrente, ed il carro condotto
sulla via percorsa dalle truppe fu tosto preso d’assalto con delusione
del nostro scopo, poiché invece dei più stanchi, vi salirono
i più svelti.
La deviazione di un mezzo chilometro fatta da quel picchetto che conducemmo al Bettolino con fermata colà di circa mezz’ora i diversi che si assidevano a riposare a loro piacimento sul ciglio della strada, lasciando passare davanti chi prima era alla coda, e varie altre facilitazioni di simil genere, a noi avvezzi alla pedanteria austriaca, fecero l’impressione che quel corpo facesse quasi una passeggiata di piacere, anziché una marcia in cerca del nemico, ciò che venne rilevato anche da altri in località diverse e per diversi corpi di truppe. Bisogna dire che al soldato francese sia lasciato un certo qual margine di libertà individuale nelle marce di campo, ch’egli poi compensa col non guardare tanto pel sottile se tocca piuttosto all’uno od all’altro ad esporsi pel primo. L’avanguardia di questo corpo era guidata dal signor Gaetano Vittadini, fittabile di Triginto da poco tempo defunto. Qualche incontro facemmo di Melegnanesi, donne specialmente che erano fuggite dal paese prima che se ne chiudessero i passi, ed i loro racconti ci stimolavano sempre più a sollecitare il viaggio per sapere qualche cosa dei nostri. Si giunse così a Mediglia verso le 5 pom. Ed essendo qui sopravvenuto un forte acquazzone, le truppe vi fecero una breve sosta. Noi ci ricoverammo nell’osteria invitando buon numero dei nostri compagni di viaggio a vuotare dei bicchieri, quando, dopo pochi minuti, s’ode un concitato suon di trombe, i soldati abbandonano frettolosi l’osteria ed in breve il paese resta deserto. Pioveva ancora a rovescio, e noi non stimammo opportuno di seguirli: cessata la pioggia ed usciti noi pure, non potemmo sapere qual via avessero presa la truppa. Ci avviammo verso Colturano, e dopo poca strada, incontrammo il maresciallo col suo stato maggiore ma senza soldati, e ci richiese della via per Balbiano e Dresano, indi ci lasciò, andando egli per altra direzione. Giunti a Colturano vi trovammo diverse persone di Melegnano che vi si erano rifugiate e sentimmo dalle stesse come pochi minuti prima fossevi stato un croato con un facchino, certo Giuseppe Bianchi detto Rocco, mandati dal Municipio di Melegnano per una requisizione di vino, e che il croato, avendo scorto in distanza alcuni francesi, se ne era fuggito abbandonando il carico. Tale nuova produsse in noi un forte disinganno, poiché, avendo veduto come fin dal mattino assai per tempo la strada Romana era tutta ingombra di truppe francesi che s’avviavano a Melegnano, ritenevamo che colà ormai non vi si dovesse essere più traccia di austriaci, né prestavamo gran fede all’intenzione di questi di opporre una seria resistenza, tanto più che quasi tutta la giornata era trascorsa senza indizio di alcun fatto d’armi. Proseguimmo nondimeno lentamente e guardinghi verso la nostra meta, da cui si stava circa due chilometri e mezzo in linea retta, ad onta che alcuni ce ne dissuadessero; ma, fatto un breve tratto di strada odesi un colpo di cannone, poi un altro, e così via. Come era naturale, noi retrocedemmo più tristi che mai, e, ritornati in Colturano salimmo sopra una piccionaja, dai cui fori vedevasi il lampo dei cannoni prima che ne giungesse il rumore ai nostri occhi; e, a quel che si poteva argomentare dalla direzione, quei cannoni dovevano essere appostati sulla strada di Milano non lungi da Melegnano. Durò circa una mezz’ora il rombo del cannone, seguì un breve silenzio, poi un gridio di voci indescrivibile, e subito dopo un nutritissimo fuoco di moschetteria, e cessato questo poco a poco, seguì un breve silenzio, poi alcuni altri colpi di cannone rari ed assai più lontani, ed in poco più di un pajo d’ore tutto era rientrato nel silenzio. Cosa era mai avvenuto in quel breve tempo? Un’orribile carneficina, come vedremo nella seconda parte. Cercammo di trovare un po’ di sonno nella casa in cui eravamo, ma ognuno può bene immaginarsi se ciò era possibile, coll’ansia febbrile che ci dominava. Ci affacciavamo spesso agli spiragli della piccionaja per indagare se si vedessero alzarsi delle fiamme, poiché, o per opera del nemico fuggente o per quella del vincitore onde snidare più presto il nemico dall’abitato, noi dubitavamo fortemente che ad un incendio del paese si dovesse arrivare, ed allora le nostre famiglie o per lo meno le nostre sostanze erano spacciate. Lunghissima ci parve quella notte, la massima parte della quale fu spesa in mille congetture sull’esito dell’avvenuto combattimento, ma nessuno di noi si attendeva un simile sperpero di vite in si poco tempo. Appena spuntò l’alba del giorno 9, non ci parve vero di poter finalmente ripigliare il nostro cammino, e giunti alla cantonata del muro di cinta dei Cappuccini (dove ora si trova il nuovo cimitero) distante un mezzo chilometro da Melegnano, due sentinelle francesi ci contrastarono il passo. Respirammo finalmente a questa sicura prova che il nemico era stato sloggiato, e fatto intendere a quei due giovanotti lo scopo che ci guidava, ci lasciarono proseguire. All’ingresso del paese, prima che incontrassimo anima viva, ci si affacciò il triste spettacolo di una piccola catasta d’una ventina di cadaveri disposti come si accomoda la legna spaccata ad essiccare, poi qua e là disseminati altri cadaveri, ritirati per lo più vicino ai muri delle case, ed un via vai di soldati, pochi taciturni, la maggior parte spigliati ed allegri, delle brigatelle che conducevano qualche prigioniero, e specialmente alcuni zuavi che uscivano da una casa portando in trionfo fra la più pazza gioja la divisa di un graduato austriaco infilata sopra un’asta, a guisa che si vedono rappresentati sui quadri taluni vincitori romani portanti in trionfo le spoglie dei vinti. Qui si sciolse la compagnia dei tre viandanti, essendosi ciascuno recato per fatti suoi, ed io proseguirò il racconto di quanto mi accadde di seguito. Trovai sani e salvi tutti i miei (padre, madre e due sorelle), e mio padre mi si affacciò pel primo sulla porta della casa, mentre si guardava ansiosamente dattorno, e, appena vedutomi, credette bene di rimproverarmi perché non me ne fossi stato a Milano invece di venire fra quel gazzabuglio; ma il pover’uomo s’accorse poi come, la presenza di chi sapeva alla meglio farsi intendere dai nuovi ospiti, potè risparmiargli più di un dispiacere. Ed in questo proposito dirò che, appena entrato in casa, vidi mia madre che si bisticciava con due zuavi che volevano frugare in un mobile, ed uno di essi aveva anche posto mano alla daga, ritengo soltanto per intimorirla, ma arrivai in buon punto per condurli via con me ad una vicina bottiglieria, dove si aggiustò la vertenza con una tazza di caffè. Venni poi a comprendere, dai fatti ragionamenti che, avendo creduto la buona donna di far loro un complimento ad una preghiera, essi l’avevan preso per un insulto, ed erano perfettamente scusabili se, nel loro stato di esaltamento non avevan tempo di riflettere che il loro idioma non era quello dei cittadini con cui si trovavano a contatto, nè daltra parte mia madre poteva immaginarsi che in quel mobile si volesse vedere il nascondiglio di un nemico (era un canterano a quattro cassetti). Diversi austriaci furono condotti prigionieri entro la giornata, stanandoli da luoghi reconditi delle case, e questa circostanza fu causa di non poca apprensione e disturbi pegli abitanti, perché talvolta si attribuiva loro il divisamento di aver voluto sottrarre un nemico al vincitore, mentre non ne sapevan nulla. Di sovente poi era anche causa di pericolosi alterchi l’opposizione degli abitanti a certe minuziose perquisizioni che gli zuavi volevan fare, con preferenza alle cantine, scendendovi per la via più spedita dalle aperture poste sulla strada, ed i reclami sporti in proposito ai superiori, avevano per lo più la risposta, che in simili occasioni essi non potevano porvi alcun riparo. L’opposizione degli abitanti a simili visite delle cantine, non preveniva già il timore della perdita di poco vino, ma dal trovarsi talvolta in esse raccolto il bello ed il buono della casa pel timore di un incendio o di un saccheggio, come già avvenne il 23 marzo 1848. Uscito di casa m’imbattei in alcuni zuavi che mi offersero in vendita diversi oggetti, che in generale erano forbici, rasoi, temperini e simili, ma, convenendomi quella merce, uno di loro mi offrì una tromba di fanteria austriaca: l’accettai per due lire, ma prima di consegnarmela, vi strappò i cordoni di lana giallo-neri cui calpestò sotto i piedi. Fatti una ventina di passi, m’imbatto in altri due zuavi che mi ritolgono la tromba chiedendomi dove l’avessi rubata, e dovetti ricomperarla con altre due lire: riuscii finalmente a nasconderla in una casa d’amici, perché da casa mia era troppo distante, ed avrei rischiato di doverla comperare ancora un paio di volte o qualcosa di peggio, ed andai a riprenderla dopo diversi giorni per riporla nella mia piccola raccolta di memorie con incisavi una scritta che rammenta la provenienza. Alcune ore passai interpolatamente ad un caffè contiguo alla mia casa, quasi sequestrato or dagli uni or dagli altri del 33 di linea giocando a domino, essendo essi felicissimi di trovare chi sapesse fare una partita a quel loro gioco prediletto, mentre da parte mia non poteva comprendere dove andassero que’ buoni camerata a prender la voglia di trastullarsi a quell’insulso gioco colla mente così fresca dell’eccidio fattosi dei loro compagni. Fu in questa occasione che uno strano visitatore vidi scendere dalla spalla del suo padrone sul tavolo da gioco per impadronirsi di un pezzetto di zucchero, poi risalire in fretta al suo domicilio abituale: era un topolino candidissimo come la neve e cogli occhietti rossi. addimesticato a perfezione e che faceva esso pure la campagna nella qualità di dilettante senza essere iscritto nei quadri. Ogni qualvolta mi recava nella mia casa per vedere se qualche cosa abbisognava da me, trovava sempre una quantità di soldati assisi tutti all’ingiro di un lungo tavolo, quanti ce ne potevano stare ed occupati a scriver lettere: altri stavano in piedi dietro di essi ad aspettare di poter occupare un posto. Oggetti di gran ricerca eran le macine da caffè, e chi non arrivava a metter la mano su qualcheduna, si rassegnava all’usanza di campo di pestare i grani col calcio del fucile nel recipiente di ferro che serve a cuocere le vivande. Io credo che il soldato francese nel suo regime alimentare avrebbe tollerata più volentieri qualunque altra privazione anzi che quella del caffè e del cognac. Qualche ora dopo il mezzodì trovandomi in prossimità dell’ufficio comunale, mi venne il ticchio di salirvi con un amico per vedere chi vi si trovasse: non erano scorsi cinque minuti che compare nella sala un ufficiale dei gendarmi di campo a cercare pressantemente il maire, e rispostogli che noi non sapevamo dove fosse, ci soggiunse esser egli venuto per ordinare all’autorità comunale che pensasse a far seppellire i morti e che si rivolgeva a noi perché dovevamo certamente appartenere all’amministrazione del Comune dacché ci trovavamo in quel luogo. Facemmo tanto d’occhi io e l’amico e cercammo di persuadere quel signore del contrario, ma non ci fu modo di riuscirvi, e per di più aggiunse che pensassimo anche a contare i morti austriaci per andar poscia a farne rapporto al generale Baraguey che ci avrebbe attesi all’albergo delle Due Spade. Detto ciò con una mezz’aria di minaccia se ne andò brontolando. Ci guardammo pochi momenti in faccia, e pareva che ciascuno di noi leggesse chiaro negli occhi dell’altro che il partito migliore fosse quello di cavarcela di là e non lasciarci più vedere per tutto quel giorno almeno; ma poi questa prima idea ci sembrò una viltà, e, desiderando di prestare l’opera nostra in qualche servigio, pensammo che se ci fosse stato possibile di trovare degli uomini da far lavorare, avremmo compiuto anche un’opera meritoria facendo da direttori necrofori. Andammo dunque nella via allora detta del Ponte di Milano (che da quel giorno doveva portare il nuovo nome di via della Vittoria) dove abitano in maggior numero quei giornalieri che potevano fare al caso nostro, ma esposta a diversi la nostra richiesta, promettendo anche di pagarli lautamente, avemmo l’invariabil risposta di vederci chiudere gli usci in faccia. La prima parte dunque del nostro compito aveva abortito per colpa non nostra, e, volendo pur fare qualche cosa, cercammo di dar passo alla seconda, e con una noterella in mano c’incamminammo avanti tutto al cimitero. Qui tre o quattro carri carichi di cadaveri erano in attesa sulla strada, e, nel cimitero era stata scavata un’ampia fossa comprendente quasi tutta la larghezza fra la strada di mezzo ed il muro di cinta a destra, e vi si deponevano i cadaveri a strati ben accomodati con calce viva frammezzo. Molti erano già sepolti, altri erano accatastati agli orli della fossa, e facemmo alla meglio le nostre annotazioni. Non mi si è ancora cancellato dalla mente il senso di ribrezzo che provai nel sentire una specie di rauca voce uscita da un cadavere che, sollevato da un seppellitore per la cintura della vita, spezzatosi il cuojo, cadde a terra dall’altezza di un mezzo metro, né quello cagionatomi dalla vista di un austriaco che, colpito da una palla di cannone nella testa, ebbe portata via di netto la parte colpita, restando attaccata al collo penzoloni una mezza testa con taglio cilindrico così preciso come se fosse stato fatto da una macchina. I cadaveri si seppellivano vestiti, ma si è osservato che la massima parte mancava delle scarpe. Nel cimitero, sui carri ed in alcune altre località del paese e fuori, si numerarono un 450 austriaci, e, secondo le istruzioni avute, licenziatosi l’amico, io mi recai all’albergo delle Due Spade a farne rapporto al generale Baraguey. Ricevuto nella vasta sala superiore alla cucina, pareva che veramente mi si aspettasse, poiché fui subito interrogato sulla missione avuta senza tanti complimenti, invitandomi a parlare nel mio idioma, mentre un giovanotto in abito borghese, che parlava assai speditamente l’italiano, faceva da interprete. Dovetti scrivere sopra un foglio di carta i numeri dei morti trovati, tenendo separate le diverse località, per apporvi poscia la mia firma. Se presso il comando dei diversi corpi d’armata eravi il sistema di conservare i documenti relativi alla campagna, anche quel foglio dovrebbe attualmente trovarsi negli archivi del ministero della guerra, a giustificazione del mio asserto, se pure i fasti della Comune non l’avranno dato alle fiamme insieme a tutto il resto. Al generale e suoi compagni, ma al primo specialmente, parve assai esiguo il numero e sentii ch’essi ritenevano dover essere per lo meno il triplo. Veramente, quantunque il triplo mi sembrasse un po’ troppo, sapeva però benissimo anch’io che il compito mio non era finito, poiché, disgustato dal tristo ufficio e dalle impressioni avute, aveva cercato di abbreviare la missione, omettendo di visitare certe località dove si poteva argomentare che ve ne fossero: d’altronde poi non si poteva pretendere ch’io sapessi dove andarli a trovare tutti. Si fu sul punto d’invitarmi o meglio obbligarmi a continuare le ricerche, ma, quando Dio volle, il generale s’accorse che sarebbe stato inutile il costringermi ad una tal cosa, e venni licenziato. Corsi subito a casa, e fermatomi pochi momenti sulla via per vedere a far l’appello di una compagnia del 33 di linea, le cui frequenti lacune mi strinsero fortemente al cuore, entrai senza che alcuno dei miei se ne accorgesse e scesi la scala della cantina. Era mia intenzione di elettrizzare un poco lo spirito abbattuto con qualche bottiglia di buon vino, ma, giunto all’ultimo gradino, mi sentii stanco, e sedutomi col capo fra le mani, vi stetti credo, una buon’ora in uno stato che non saprei ben definire, e quando rinvenni da quel sopore erasi fatta notte. Risalito, mi trovai in compagnia di sei od otto medici che avevano preso alloggio nella nostra casa, e, parlando con essi delle cose avvenute, li sentii fare i più gravi lamenti perché la loro ufficialità era caduta in numero affatto sproporzionato a quello dei gregari, del che si attribuiva la colpa non solo al costume abituale di esporsi troppo generosamente al pericolo, ma anche al distintivo troppo marcato dalla lucente spallina d, cui miravano di preferenza i fucili austriaci. Dei molti feriti, soltanto i più gravi e non trasportabili restarono a Melegnano, poiché, giunta a Milano la nuova del loro ingente numero, fu un vero pellegrinaggio d’equipaggi dai più signorili ai più modesti, che provveduti di materassi, di cuscini e di coperte, venivano a contendersi l’onore di condurne qualcuno in città, dove per la maggior parte vennero accolti e curati in case private. Il seguente giorno 10 fu un gran lavorio a portar via ancora quei pochi morti che rimasero sparsi nelle località più remote, ma più di tutto a fare un po’ di pulizia alle strade perché doveva giungere l’Imperatore, e si voleva togliere possibilmente le cause che potessero mettergli sott’occhio con troppa evidenza i terribili effetti dell’avvenuto combattimento. Vidi in giro dei carri carichi di effetti di minuto vestiario, come zaini, cheppì, giberne, fodere e simili, e qualche altro carro di fucili che erano stati raccolti nei vicini campi. Sembrerà strano a taluno che si trovasse bisogno di nascondere possibilmente al comandante supremo gli effetti dell’avvenuta mischia, e strana parve anche a me questa cosa; ma pur troppo era vera, poiché vedendo taluni soldati affaccendarsi con più prestezza di quella che sarebbe stata naturale e chiestili del motivo che li sollecitava con tanta ansietà, mi risposero che bisognava sgombrare e pulire perché doveva arrivare l’Imperatore. Questi arrivò infatti verso le 9 ant. E lo vidi brevemente soffermato sulla piazza San Giovanni (ora Vittorio Emanuele) davanti al palazzo comunale, circondato dal suo stato maggiore e tutti in divisa da campo: ebbe luogo un ufficio funebre e si fece una distribuzione di ricompense. Vuolsi che i generali Niel da Carpiano e Mac-Mahon da Dresano siano venuti ad abboccarsi coll’Imperatore. Io non vidi questi generali, ed il primo specialmente, anche vedendolo, non l’avrei conosciuto, ma una quantità di cavalleria chasseurs d’Afrique che vidi scendere dalla via San Giovanni può benissimo esser stata la scorta che accompagnò Niel da Carpiano, come altra cavalleria proveniente dal Borgo Lambro e di cui non ricordo la qualità, può essere stata quella di Mac-Mahon. La mattina del giorno 11, mentre si riteneva da tutti che i nostri alleati s’affrettassero verso Lodi onde inseguire il fuggente nemico, si videro invece, con nostra somma meraviglia, prendere la strada per Milano. Sembrava quasi che il nemico, concentratosi ed ingrossato nei paraggi di Lodi, accennasse a ritornare sui suoi passi per prendere una rivincita forse anche su Milano, ma pare non fosse poi altro che una delle solite mosse strategiche, che noi profani dell’arte militare rinunciamo volentieri a spiegare, accontentandoci talvolta, in questo genere di cose, anche di ricevere per moneta di buona lega qualche sbaglio madornale. Il cugino che mi fu compagno nel descritto viaggio era l’ingegnere Giovanni Frassi, l’amico è il signor Domenico Tensali: ambedue verificarono l’esattezza di quanto ho narrato essermi accaduto in loro compagnia, poiché sebbene il primo sia morto il 5 ottobre 1880, la mia descrizione era compilata assai tempo avanti quell’epoca. L’amico che venne con me nell’ufficio comunale e poscia mi accompagnò nelle ricerche di cui dissi è il pittore signor Luigi Cordoni. |
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