I maiali, mammiferi della famiglia dei Suidi, sono stati allevati e
sfruttati a fini alimentari e sacrificali nel bacino del Mediterraneo,
almeno dal III millennio a. C.. Il fatto che, come diceva la saggezza popolare,
del maiale non si buttasse via niente, unito alla sostanziale gratuità
del suo allevamento (le bestie, onnivore, venivano lasciate libere al pascolo
e, in ambiente domestico consumavano i rifiuti organici), rendeva i suini
insostituibili rispetto alle necessità di apporto proteico e lipidico
delle società tradizionali basate sull’autoconsumo. Più di
quelle bovine, inoltre, per l’abbondanza di grasso, le carni suine si prestavano
alla conservazione; e difatti, se una parte della carne, solitamente i
tagli più deperibili e le interiora, venivano consumati (molte volte
comunitariamente) nei giorni successivi a quella sorta di rito agricolo
che era la macellazione del maiale, la maggior parte veniva trasformata
e conservata per il fabbisogno di tutto l’anno.
Appena ucciso il maiale se ne consumava il sangue, fritto o bollito,
ma anche sotto forma di torta o di budino, con aggiunta di altri ingredienti,
come cipolle e formaggio. Con i tagli meno pregiati (cotenne, orecchie,
piedino) si preparava la cassöla
e chi poteva permettersi di non insaccare tutta la carne, ne preparava
una casseruola in umido, con le verdure, in modo da poter disporre di molto
intingolo. Il carré finiva, assieme al fegato, nella rustida,
e assieme alla salsiccia, nella rustisciada.
Il lardo e le pancette venivano salate su assi di legno in pendenza, per
favorire lo scolo dei liquidi. Nel corso dell’anno avrebbero fornito la
materia prima per la pestada che era la base
di qualsiasi condimento. Con una parte del grasso dei lombi, lasciato sciogliere
lentamente in una pignatta di rame, si faceva lo strutto che poi veniva
conservato in una olla di terracotta. Non condimento, ma vero e proprio
companatico era invece la salsiccia, il più antico e conosciuto
degli insaccati di carne di maiale, preparata in decine di varianti per
quanto riguarda tagli e carni impiegate, la grana della macinazione, la
scelta degli ingredienti e delle spezie, in prevalenza pepe, cannella,
aglio e vino bianco. La salsiccia insaccata nella parte più stretta
dell’intestino tenue del maiale o della capra, e non legata, la luganega,
si consumava prevalentemente fresca. Oggi è prodotto di macelleria,
si prepara con parti grasse e magre di solo suino preferibilmente ricavate
dalla spalla e, conservata in luogo asciutto e fresco, va consumata entro
3-4 giorni. Per una conservazione più prolungata si preparano i
cotechini, le salamelle e i salamini. Si tratta di insaccati da cuocere,
diffusi, in varie tipologie, in tutta la Lombardia. Le salamelle sono confezionate
con un impasto di carni provenienti dalla spalla, molto più magre
di quelle normalmente utilizzate per la preparazione dei cotechini e dei
salami da cuocere. Il condimento prevede solo sale e pepe e pochi aromi,
diversi da zona a zona. Dal punto di vista nutrizionale, le salsicce e
le salamelle sono piuttosto grasse e appartengono alla categoria delle
carni che favoriscono la deposizione del colesterolo nelle arterie. Con
carni magre e grasse opportunamente salate e aromatizzate si preparava
e si prepara anche il salame tradizionale, da consumare crudo, quello che
oggi con la denominazione di salame di Milano è compreso tra i prodotti
tipici della Lombardia e protetto dalla Denominazione di Origine Controllata
per mezzo di apposito disciplinare di produzione. Può essere prodotto
solo con suini provenienti da allevamenti situati in Lombardia, Piemonte
o Emilia Romagna. Al taglio presenta aspetto compatto, con colore rosso
vivo uniforme, con prevalenza della parte magra e pepe spezzato. Può
essere insaporito con aglio. La completa ed estremamente diversificata
utilizzazione di tutte le parti del maiale, teorizzata ed esemplificata
nel trattato seicentesco "Del porco e delle centodieci
maniere di farne vivande" del marchese bolognese Vincenzo Tanara,
trova conferma nel consumo della cotenna o cotica, ovvero della pelle del
maiale. Dura e spessa, ricca di grasso, la cotenna viene utilizzata sia
in salumeria sia un cucina. In salumeria come involucro di alcuni insaccati,
in particolare di zampone e cotechino (cui dà anche il nome). In
cucina ha impieghi antichissimi come succedaneo di grassi più pregiati
e ancora oggi serve per insaporire alcune preparazioni, prime fra tutte
le minestre, entra nella cassöla
e, scaldata e grattugiata, si utilizza per rivestire il fondo di brasiere
e cocottes affinché durante la cottura rilasci grasso alla pietanza
ammorbidendola. La cotenna viene inoltre impiegata, con il piede di vitello,
come elemento gelificante nella confezione delle gelatine. Per suo elevato
tenore lipidico (27% circa) e quindi calorico (oltre 600 kcal/100 g), e
la sua consistenza coriacea, la cotenna è poco digeribile e va consumata
saltuariamente. Il trionfo nell’utilizzo delle parti residuali del
maiale si ha però nella cassöla,
tipico piatto invernale che taluni vogliono connettere alla ritualità
domestica per la figura di sant’Antonio abate. I legami antropologici tra
il santo eremita e il porco, tra i suoi festeggiamenti (17 gennaio) e la
macellazione del maiale sono fuori discussione. L’inserimento del maiale
nella ritualità antoniana si sviluppa solo nel tardo Medioevo e
prende le forme di una giustificazione a posteriori rispetto ad una mitologia
(e alla conseguente iconografia) non più decifrabile nelle sue reali
connotazioni sacrali. Nella codificazione oggi più diffusa, la cassöla
può essere fatta risalire alla metà del secolo scorso o agli
inizi del nostro secolo. Le origini di un piatto così complesso
sono comunque oscure. C'è chi ritiene si sia aggregato, nel corso
dei secoli, attorno a un originario nucleo di verza e cotenne di maiale,
tipicamente padano. C'è chi, al contrario, ritiene non sia se non
la progressiva semplificazione di un potaggio meridionale, giunto nella
regione attraverso la dominazione spagnola, o il ridimensionamento di un
piatto della cucina barocca, contenente carni di diversi animali, elaborato
dalla gastronomia aristocratica a partire da piatti simili a quella oglia
registrata da Bartolomeo Scappi nella sua Opera (1570). Quasi tutti i ricettari
fino al XIX secolo sembrerebbero convalidare questa ultima ipotesi, indicando
per la cassöla
ingredienti molto vari e prescrivendo quasi sempre non tagli di maiale
ma la carne e le interiora di pollo. Crediamo sia possibile avanzare l’ulteriore
ipotesi che la versione povera (verze e cotiche, avvicinabile agli ambiti
della ritualità popolare per Sant’Antonio) e quelle più elaborate
possano vantare origini separate e che dopo la metà del secolo scorso
abbiano messo in comune soltanto il nome, a partire dall’affinità
delle tecniche di preparazione e della comunanza di alcuni ingredienti.
Della cassöla
si trovano versioni, variamente denominate, in alcuni Paesi mediterranei
e in molte regioni d’Italia, persino in Sicilia e in Sardegna. In Lombardia
ogni zona ha il suo bottaggio tradizionale, ma è abituale una grande
elasticità nella scelta degli ingredienti: verze e cotiche per versioni
essenziali, carne di maiale di vari tagli, con salsicce e verdure varie
nelle versioni più ricche, carni di pollo e di volaille in aggiunta
agli altri ingredienti per le versioni ancora più raffinate. Rispetto
al passato, oggi si tende a sottoporre le costine, il piedino e le salsicce
ad una scottatura per sgrassarli.. La cassöla
milanese rifiuta i piedini e il battuto di verdure e utilizza la testa
del maiale e un bicchiere abbondante di vino bianco, mentre nella Bassa
pavese si impiegano solo puntine e aglietti. Nelle zone del Varesotto e
del Mortarese prossime alla provincia di Novara si aggiungono carne e durelli
d’oca. In ricette recenti si segnalano il pomodoro o la conserva. Raro
uso delle spezie (chiodi di garofano, ma neppure sul pepe c’è accordo
unanime). |