Esisteva
da tempo, prima del 1000, una chiesa di campagna, su un terreno di proprietà
dell’arcivescovo di Milano, il quale investiva alcuni laici o ecclesiastici
a lui legati con particolari interessi di controparte, come era nel sistema
feudale. Tali persone ricevevano il diritto di disporre del feudo rustico
di Calvenzano, traendo utili e vantaggi dalle cose mobili e immobili in
esso esistenti. Di conseguenza essi avevano anche il diritto sulla chiesa
esistente nel feudo, con padronanza di nomina e di deposizione dei prete
cappellano. E vi furono anche famiglie nobili di Melegnano che erano feudatarie
di Calvenzano e che avevano diritti su quella chiesetta e sui terreni.
L’arcivescovo milanese Anselmo III° (1097-1101), dopo colloqui ed accordi
con i feudatari di Calvenzano, che erano i fratelli Arialdo e Lanfranco
ed un loro parente di nome Ottone, tutti residenti a Melegnano, abolì
il diritto feudale della chiesa di Calvenzano e la donò ai monaci
dell’abbazia benedettina di Cluny, facendo venire dunque i monaci cluniacensi,
con l’ordine di costituirvi un piccolo monastero, e con il permesso di
ricevere donazioni, beni, lasciti di ogni genere, assegnando in dote al
monastero quei terreni che precedentemente costituivano i beni immobili
della chiesa feudale calvenzanese. E l’importanza di Calvenzano fu questa:
era
il primo priorato cluniacense nella diocesi di Milano. Qual è
il senso storico di questo passaggio da un feudo ecclesiastico ad un monastero
indipendente? Il nome di Cluny, un centro benedettino di Francia, ed il
suo monachesimo significavano una risorsa a piena vita dell’ideale monastico
secondo la regola di S. Benedetto: nuova pietà; fedeltà alla
professione scelta; riforma del clero. E gli anni dell’episcopato di Anselmo
III, introduttore dei cluniacensi a Calvenzano, furono anni di avvenimenti
di portata storica mondiale: la lotta per le investiture, affrontata decisamente
dal papa Gregorio VII, entusiasta di Cluny, e durata oltre cinquant’anni,
con lo scopo di liberare la Chiesa dal potere terreno con una radicale
riforma. Erano pure gli anni del risveglio della coscienza cristiana dell’Occidente
con Urbano II°, il papa della prima crociata e che era stato monaco
a Cluny ed era in frequenti e stretti rapporti con il nostro arcivescovo
milanese Anselmo III°. Il successore di Urbano II° fu il papa Pasquale
II°, anch’egli monaco di Cluny, ed egli pure nella linea della riforma
e nella convinzione che i vescovi possessori di feudi diventavano fatalmente
venditori di cose sacre e troppo legati all’imperatore, e quindi troppo
dediti agli affari terreni. In
questo contesto politico e di riforma ecclesiastica europea, necessità
di riforme, lotte per le investiture, affermazione di papi cluniacensi,
deve essere collocata l’introduzione dei monaci cluniacensi in Lombardia:
e Calvenzano rappresentò il primo monastero cluniacense nella diocesi
di Milano, tra il 1097 ed il 1101. E dopo il 1200 vi furono in Lombardia
oltre cinquanta monasteri dell’ordine di Cluny. A Calvenzano i monaci erano
quasi sempre tre, raramente quattro. Esercitavano l’elemosina, l’ospitalità,
la recita dell’ufficio divino, l’amministrazione dei beni rurali, la cura
delle coltivazioni. Vi si effettuavano visite di abati superiori e di ispettori
dell’ordine, e si scrivevano relazioni e verbali sullo stato del monastero,
sulla vita dei monaci e sulla condizione dei beni fondiari. Ma il significato
più importante che ebbe riflessi politici e sociali fu questo: Calvenzano
era un esempio del passaggio dal sistema feudale dei laici alla emancipazione
di una chiesa autonoma e libera. Ed ecco il testo della concessione: «
Nel
nome del figlio di Dio che è la somma verità, Anselmo, per
sola misericordia divina arcivescovo della chiesa milanese. Convenne alla
responsabilità del nostro governo cristiano, alla pietà religiosa
ed alla benevola comprensione, dare il consenso alla volontà di
chi richiede con retta intenzione. Ed anche perché spetta alla nostra
autorità amare con affetto paterno tutti i figli della chiesa nostra
e non negare un’opera di pietà richiesta. Da ciò infatti
meriteremo un grande premio da Dio creatore di tutti. Perciò a tutti
i nostri fedeli di oggi e di domani vogliamo rendere noto che abbiamo concesso
all’ordine monastico di Cluny la chiesa di S. Maria di Calvenzano. La concessione
è fatta da me e da tutti i miei consiglieri, considerando la salvezza
delle nostre anime, e trattando la questione con i fratelli Arialdo e Lanfranco
ed un loro parente di nome Ottone, perché essi avevano in feudo
da lungo tempo Calvenzano, in dipendenza nostra. Con la chiesa di Calvenzano
doniamo anche la sua terra, la riscossione delle decime del suo fondo rurale
così come oggi sono dovute, e tutti i beni che possiede attualmente
e che nel futuro potrà procurarsi. Inoltre riteniamo una cosa lodevole
che se qualcuno dei loro eredi o qualunque altra persona volesse dare un
aiuto a questa chiesa di Calvenzano con i beni e le decime che derivano
dalle loro chiese edificate o che saranno costruite, lo faccia pure, e
con l’ispirazione della provvidenza, la benedizione di Dio ed il nostro
pieno permesso. Tutto questo però con il nostro comando che questa
predetta chiesa di Calvenzano, senza più legami e libera da ogni
condizionamento, debba essere liberamente un cenobio cluniacense, e non
debba sottostare alla giurisdizione di nessuna altra chiesa per secoli
infiniti. E se qualcuno dei nostri successori o qualche altro personaggio
grande o piccolo si metterà contro a questa nostra preziosa concessione
sia scomunicato con la scomunica più terribile, non abbia parte
con Cristo che è stato crocifisso per noi sul Golgota, finché
ravvedendosi ad una congrua soddisfazione e fatta la penitenza, renda giustizia
all’abate ed ai monaci della santa chiesa di Cluny che allora vivranno.
E perché questa donazione sia più credibile e più
stabile e si dia fede, e dai nostri posteri sia ritenuta per sempre stabile
e intoccabile, abbiamo firmato questo documento di propria mano come testimonianza,
ed abbiamo ordinato al nostro cancelliere Eriprando di mettere il nostro
sigillo, come si usa fare. Io Anselmo, arcivescovo per grazia di
Dio, per confermare ho sottoscritto. Gotefredo arciprete ho sottoscritto.
Bonifacio presbitero ho sottoscritto. Atone arcidiacono ho sottoscritto.
Arnolfo diacono ho sottoscritto. Alberto presbitero ho sottoscritto. Tedaldo
diacono ho sottoscritto, Roso diacono ho sottoscritto. Landolfo presbitero
ho sottoscritto. Odelrico presbitero ho sottoscritto. Landolfo diacono
ho sottoscritto. Gualberto diacono ho sottoscritto. Ariprando cancelliere
della santa chiesa milanese ho sottoscritto. » Con
tale donazione, descritta nel testo da noi riportato, la chiesa di S. Maria
di Calvenzano, che prima da lungo tempo era di diritto dei nobili signori
di Melegnano, fu donata ai monaci cluniacensi perché ne facessero
un cenobio, cioè un monastero con la vita in comunità; e
più tardi, quando il monachesimo cluniacense entrerà in crisi,
la chiesa di Calvenzano passerà in commenda. La vita dei monaci
a Calvenzano fu in connessione con quella di Cluny e si svolgeva secondo
le direttive generali dell’ordine benedettino. Nel 1281 avvenne la visita
dell’abate generale e trovò Calvenzano in buono stato, tranne il
convento che era devastato dalle guerre. Un’altra visita nei 1306 rilevava
che il monastero aveva un debito di cento lire imperiali da estinguersi
in tre anni, ma che era stato pagato nel giro di un solo anno. Nel 1310
vi è un monaco ed un priore, e si aspettava un terzo monaco; facevano
il divino ufficio come potevano; si esercitava l’elemosina abbastanza bene;
non c’erano debiti e vi era il necessario fino ai nuovi raccolti. Ed i
verbali delle visite continuavano a trascrivere la buona situazione. Quello
del 1331 diceva così: « Fummo personalmente
nella comunità di Calvenzano in diocesi di Milano; in questo monastero
vi sono due monaci più il priore. L’ufficio divino, la liturgia,
l’elemosina e l’ospitalità, tutto è fatto bene. Hanno il
necessario fino al futuro raccolto. Il priore è un buon amministratore
sia nelle cose spirituali sia nelle temporali ». Nel capitolo
generale tenuto a Cluny si riferiva che il priore di Calvenzano stava bene
e che il reddito del monastero era aumentato moltissimo, per cui si poteva
e si doveva lodare il priore per la sua buona amministrazione. Ed ancora
nel 1339 il priore amministrava lodevolmente, e ciò è riconfermato
nella visita e nel controllo sul monastero dell’anno 1342, così
pure nel 1344. L’anno dopo il priore di Calvenzano è presente al
capitolo generale di Cluny, quando si trattava di eleggere l’abate maggiore
e discutere i principali problemi. Per il 1349 era segnalato un debito
di 60 forini per il rifornimento del vino e cinque anni dopo vi erano nel
monastero il priore, un monaco, e due novizi che dovevano essere ordinati
preti. Dal 1359 al 1391 vi furono altre sei visite. Talvolta anche il priore
di Calvenzano era visitatore di altri monasteri. E nella monotonia quotidiana
non mancavano i punti forti di maggior preoccupazione e di gaudio: nel
1367 il monastero di Calvenzano fu visitato dai ladri che asportarono i
vasi sacri; ma nel 1368 vi fu l’acquisto di beni patrimoniali. Tale condizione
florida, spiritualmente attiva oltre che materialmente, continuò
per tutto il 1300 e parte del 1400, quando Il movimento benedettino di
Cluny incominciò la sua crisi di decadenza, con la chiusura saltuaria
e poi quasi generale dei suoi monasteri non soltanto in Lombardia. Fu allora
che la chiesa ed i beni annessi passarono dall’ordine cluniacense al sistema
della commenda, cioè: il potere di amministrare e successivamente
anche di godere i redditi di un beneficio ecclesiastico vacante affidato
ad una persona ecclesiastica o anche laica, fisica o giuridica, temporaneamente
o permanentemente. Dai verbali delle relazioni che stendevano i visitatori
al priorato di Calvenzano, come sopra abbiamo descritto, figuravano alcune
opere tipicamente benedettine: la liturgia, l’ufficio divino, l’elemosina,
l’ospitalità. Accanto alla preghiera, che avveniva in coro nell’interno
della chiesa, si praticavano opere tipicamente cristiane ed evangeliche,
l’elemosina ai poveri e l’ospitalità ai passanti, questo avveniva
nei locali attigui alla chiesa, dove successivamente gli agricoltori di
Calvenzano hanno trasformato per uso rurale. Calvenzano era dunque un piccolo
mondo del grande movimento benedettino in mezzo a noi, ai confini stessi
della nostra borgata. Fu una importante opera civilizzatrice: perché
le terre incolte, dopo la crisi del periodo romano e le incertezze del
governo dei longobardi, erano lavorate e sfruttate, e le rendite di tale
continuo lavoro venivano impiegate in gran parte per fini sociali: tolte
le spese indispensabili per il sostentamento della comunità e quelle
per l’abbellimento degli edifici, il resto era usato per le opere di carità;
e fra queste avevano un posto speciale gli ospizi per i pellegrini. Ma
un’altra opera crearono i monaci a Calvenzano: la basilica che oggi noi
vediamo: è la prima opera di architettura che vanta le più
antiche origini per Melegnano arrivata fino a noi. La parte absidale, forse
su sarcofagi romani, è del X-XI secolo. Le quattro campate e mezza
dell’abside sono a spina di pesce del secolo XI. Le due campate e mezza
verso la facciata sono a mattoni in piano della metà del 1400. Riguardo
ai materiali usati, le fondazioni sono di ciottoloni di fiume; sarcofagi
in serizzo, cioè di roccia uguale al granito; ed altri materiali
vari di ricupero. Le strutture hanno murature a secco, spina di pesce,
in piano, con inserti in pietra di varia origine e materiali di spoglio.
Il tetto ha una grossa orditura in rovere; la mediana è in rovere
e abete. Il soffitto è a cassettoni in abete e pioppo. Le sculture
sono in pietra di Saltrio e marmo di Musso. L’impianto generale ricorda
S. Ambrogio di Milano: tre navate e tre absidi di cui una crollata. Sette
campate; i pilastri sono polistili a due dimensioni alternate. La basilica
è lunga metri 26 più 4 metri dell’abside; è larga
metri 16. I pilastri interni sono polistili a due dimensioni alternate;
i maggiori con traccia di archi traversali alle pareti, che sono crollati.
Espansioni capitelliformi in cotto. Capitelli ai pilastri della absidiola
di sinistra con aquilotto. Lesene addossate alle pareti con basi romaniche
e fogliette protezionali. Esternamente vi sono otto pilastri da contrafforte
di varia dimensione successivamente collegati con arcate reggispinta. Le
volte sono soltanto sulle navi laterali, a padiglione, non a crociera.
Il soffitto è a cassettoni in legno solo sulla nave centrale. La
copertura è in coppi a canale in cotto su orditura portante in legno.
Il fianco nord ha queste caratteristiche: parte inferiore: 4,5 campate
vicino all’abside in muratura a sacco, a spina pesce; altre campate verso
la facciata, del 1400, a mattoni in piano; sette archi reggispinta sovrapposti
in epoca successiva agli otto pilastri da contrafforte; monofore a doppia
strombatura; la parte superiore: di tre epoche, l’ultima è coeva
del campanile del 1600; la parte verso la facciata è della metà
del 1400 con due aperture opposte, circolare e a losanga; l’archeggiatura
è simile a S. Lazzaro di Pavia e alla basilica di Aquileia. Per
le absidi: maggiore, cornice con cinque arcatelle per campata; una finestra
centrale, originale, con colonnina angolare; due finestre posteriori; absidi
minori: una crollata; due lesene con archetti; una finestra originale e
due posteriori; le loro fondazioni sono su sarcofagi romani. La facciata
è stata più volte manomessa; timpano e aperture superiori
del 1400; a lato del portale imposte in marmo di Musso; traccia di portico
a cinque volte; due porte laterali murate con spalle visibili. Le sculture.
Capitelli con aquile all’absidiola di sinistra. Bassorilievo murato all’interno
(concio di arco) con scena di caccia forse del secolo XII. Mensole di facciata
in marmo di Musso. Il portale: affine con i rilievi della tomba del beato
Alberto (+ 1095) della abbazia cluniacense di Pontida. Primo quarto del
secolo XII: scultura di ispirazione comasco lombarda con influssi della
scultura borgognona. Il materiale usato è pietra di Saltrio (in
provincia di Varese). Il contenuto delle sculture rappresenta scene dell’infanzia
di Cristo. L’arco si imposta su due mensole: il bove come simbolo di S.
Luca, ed il leone come simbolo di S. Marco. Le scene da destra a sinistra
sviluppano questi soggetti: l’annunciazione, la visitazione, l’angelo che
appare in sogno a Giuseppe, due scene della natività, l’annuncio
ai pastori, l’adorazione dei magi, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti,
la morte di Erode. Gli affreschi. Nell’aula sacra sono rimaste solo tracce,
specie alle strombature delle finestre, ed in varie epoche si sono avute
imbiancature e intonacature. Nel catino dell’abside si vedono figure bizantineggianti
(1340?) con ritocchi sette-ottocenteschi; pittura giottesca che si avvicina
a quella di Viboldone (Giusto de’ Menabuoi). E raffigurata l’incoronazione
della Vergine; le figure di Giovanni evangelista, arcangelo Gabriele, Madonna,
Gesù, arcangelo Michele, Giovanni Battista. La pala d’altare raffigura
l’Assunzione della Vergine (Procaccini?) e quattro tele degli evangelisti
depositate all’Ospedale Predabissi. Un antico Crocifisso in rame sbalzato
è sparito durante l’ultima guerra. |