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La terra sotto gli Sforza
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La terra
Già molti secoli erano passati dalle forme dell’economia dell’Alto Medioevo, e da parecchi secoli si erano rese stabili le conquiste tecniche applicate all’agricoltura, ormai diventate tradizionali, diffusissime ed insostituibili per una buona conduzione rurale.  Ricordiamo le principali, con il secolo della loro invenzione o diffusione: diffusione del mulino ad acqua (sec. VI°); diffusione della rotazione triennale sui prati (sec. VIII°); diffusione dell’aratro pesante (sec. VIII°); maggior uso del ferro ai cavalli (sec. IX°); maggior uso del basto (sec. IX°); attacco a due per animali da traino (sec. IX°).  La terra, ovviamente in una zona come la nostra, era la forma fondamentale della ricchezza, ed i buoi erano lo strumento naturale per ogni tipo di energia necessaria coadiuvati anche dai cavalli ai quali si dava in modo particolare la biada.  Nel periodo visconteosforzesco si aprirono nuove strade nella nostra zona: basti pensare alla Strada Pandina, lunga dodici chilometri da Melegnano a Villa Pompeiana, fiancheggiata da vivaci rogge di acqua perenne; ed i decreti ducali sono espliciti nell’imporre la continua manutenzione. Proprio per questo motivo la vita rurale si fa più diffusa e più ardita, a differenza del Medioevo longobardo e carolingio, quando le strade e le comunicazioni erano rese difficili e malsicure e quando si tendeva a tenere un’economia chiusa.  Un secondo elemento era la presenza fitta e continua di monasteri maschili disseminati nella nostra zona: Calvenzano, Viboldone, Chiaravalle; e forse, ma non ne siamo certi, anche alla Legorina e a Sarmazzano. Anche le chiese parrocchiali o di una certa importanza possedevano fondi rustici come buon patrimonio. La chiesa locale di San Giovanni, anche prima della sua erezione a prepositura nel 1442, possedeva beni immobili che concedeva in affitto da coltivare. Il monastero dei Carmelitani al Carmine, fondato verso la fine del 1300, ebbe in dotazione molte pertiche di terra. I documenti che parlano della Rocca Brivio, di Colturano, della località del Faino, di Vizzolo, sono chiari nel riferire una vita agricola come uno dei beni fondamentali cui parecchi aspiravano: si parla di raccolti, di diversi prodotti, di decime, di vendite, di trapassi di proprietà, di contratti su terreni.  Sono frequenti nelle pergamene degli archivi i ricordi dei beni terrieri che proprietari laici o monasteri o ecclesiastici affidavano, con dovuto contratto, ad ardimentosi fittavoli con l’obbligo di migliorare le colture ed il necessario patrimonio zootecnico: era un provvido fenomeno che contribuì alle fortune dell’agricoltura lombarda.  I campi erano coltivati. Ne è prova diretta anche il fatto che ogni appezzamento di terreno aveva un suo nome, quindi una sua cura ed una sua considerazione da parte dei fittavoli e dei contadini.  I terreni che stanno sulla sinistra per andare da Melegnano a Milano, cioè i terreni di Mezzano e di Montone, alla metà del 1400 avevano un loro nome proprio: che noi trascriviamo qui come li abbiamo letti sul vivo documento: ad paganam, ad campus de supra, ad campaneam de domo, ad crucem, ad campus ulonam, ad dossum, al castello, il roncho, ad sambuchetum, ad gambarinum, ad campum fontane, ad botram, ad pratum novum, ad insulam, ad gamboloita, campo del scariono, il fornasino, il vignolo, la vigna del archero, el campono, la zorla, la funtanella dela muralia, el campo del bosco, i1 beghina, ad pradella. Notiamo che alcuni di questi nomi sono ancora ricordati.  All’inizio del 1500 la nostra terra melegnanese fu ammirata dal cronista francese Pasquier le Moyne che seguiva l’esercito francese di Francesco I nel 1515. Egli qualifica i nostri prati come “la belle et bonne terre”, la bella e la buona terra, scrivendo chiaramente che “le pays denviron bon et fertiles vignes bons vins blancz et clairetz, bonnes terres a froment, fruicyz, pomes, poirez, noix, figues”, cioè egli osserva il territorio circostante che ha vigne fertili che danno vini bianchi e chiaretti, campagne coltivate a frumento, ricche di frutta, mele, pere, noci, fichi.  Inoltre egli specifica che vi sono “deux belles grosses et bonnes cassines nomèes Saincte Brigide et Gevilli”, due grosse e buone cascine chiamate Santa Brera e Zivido.  Del resto la fertilità della terra melegnanese e circondariale era assicurata, oltre che dal continuo lavoro intelligente dei fittavoli, anche e soprattutto dalla quantità d’acqua che vi scorre attraverso il Lambro, la Muzza, l’Addetta, le rogge. L’acqua era sana, limpida, gagliarda come la natura l’aveva creata. L’umanista e storico Giorgio Merula, morto a Milano nel 1494, ospite alla corte di Lodovico il Moro, scrive del nostro Lambro: “acquarum perpetua claritate nitens, copiaque piscium optimorum abundans”, il Lambro è un fiume splendente per continua chiarezza, abbondante di ottimi pesci.  Questo giudizio sulla bontà delle acque del Lambro ricalcava un’espressione pronunciata e scritta dal famoso sommo poeta Francesco Petrarca, il quale scrivendo all’amico Guido Sette dal castello di San Colombano, affermava che “ai piedi del colle scorre il Lambro, un fiume non troppo largo, ma limpido e capace di sostenere barche di ordinaria grandezza”.  E siamo nel 1300. Sono note e celebri, comunque, le lotte al tempo dei Comuni del 1100 e 1200, tra Milano e Lodi, per il possesso delle acque di tutta la nostra zona, come condizione necessaria per la fertilità ed il lavoro nei nostri campi.  Un lungo discorso sarebbe da farsi sulle proprietà dei monaci della Certosa di Pavia che possedeva il più esteso patrimonio fondiario del ducato. Essi possedevano anche la grancia di Carpiano, una comunità di frati con organizzazione ed amministrazione propria. Un documento nell’archivio della Famiglia Bascapè‚ di Milano, riporta che il 9 aprile 1517 i monaci di Pavia concedono a livello (contratto agrario per il quale un bene rurale veniva concesso in godimento per un certo periodo di tempo a determinate condizioni) della grancia di Carpiano ad alcuni membri della famiglia Bascapè’, agli Omodeo e ad altri cittadini di Milano. La concessione che comprendeva le acque del Lisone, alcune rogge e fontanili, mirava a consentire l’irrigazione dei loro fondi, attraverso una equa rotazione nell’uso delle acque stesse.  Vanno, dunque, segnalate queste preoccupazioni di migliorare le colture fondiarie da parte di ricche famiglie residenti a Milano, ormai orientate ad investire le proprie ricchezze nell’agricoltura. Ma è nostra opinione che l’impulso principale all’agricoltura sia venuto dagli Ordini monastici, felicemente attivi nella nostra zona dopo il 1000: nell’abbazia di Calvenzano i Cluniacensi vennero nel 1093, a Chiaravalle i Cistercensi nel 1135, a Viboldone gli Umiliati nel 1176, a Carpiano i Certosini nella prima metà del XII° secolo, a Melegnano i Carmelitani nel 1393.  La costante attività dell’agricoltura locale era dovuta a diverse circostanze particolari nostre: il Lambro, la Vettabia, il colatore Addetta, il canale Muzza, il Redefossi, la roggia nuova Brivio, il cavo Marocco: quindi il tipo di irrigazione nel Melegnanese è di grande importanza per la qualità delle culture e dei prodotti.  Famose sono rimaste le “marcite” o prati marcitori: il mirabile sistema irrigatorio che parte dal canale base e via via si fraziona e dirama fino a formare il capillare condotto della marcita. E’ il sistema che ancora oggi, sia pur raro, perpetua una cantante spumosa bellezza nelle campagne in questo modo bonificate. Sul prato marcitorio nasceva erba sempre pronta e fresca per il foraggio più buono: la loglierella, la coda di volpe, il trifoglio, la festuca delle graminacee.  La maggiore produzione era quella destinata, quindi, all’alimentazione degli animali domestici, non soltanto delle marcite, ma anche degli altri prati, pascoli ed erbai.  Lungo le rogge e lungo gli argini dei campi sorgevano piante di tigli, olmi, pioppi, carpini e betulle. Questi alberi cingevano le distese dei campi sui quali crescevano il frumento, l’avena, la biada e più tardi il riso ed il granoturco. E un elemento tipico del paesaggio rurale erano i lunghi filari di piante, alcune delle quali alte e maestose e robuste come lo potevano essere le querce e gli ontani.  Pure molto comune era il salice.
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